E’ appena uscito per i tipi di Mondadori un saggio degli storici Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone intitolato “1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile” che si riferisce alle vicende legate al Governo guidato da Ferdinando Tambroni,. un monocolore democristiano che aveva una fragile maggioranza alle Camere solo grazie ai voti del MSI, e alle violente manifestazioni di piazza , altrettanto violentemente represse con morti e feriti, che condussero al suo crollo e alla riapertura della prospettiva del centrosinistra imperniato sul rapporto fra la DC ed il Partito socialista ormai svincolato dall’alleanza preferenziale con i comunisti.
In effetti il 1960 fu un anno spartiacque per molti motivi, perché rappresentò una svolta decisiva contro le ultime resistenze alla modernizzazione del sistema politico e di una società che sottopelle era già molto cambiata rispetto al periodo dell’immediato dopoguerra: fu un anno decisivo anche per la Democrazia Cristiana ed il movimento cattolico, che andavano smarcandosi dalle eccessive pressioni clericali nella definizione delle loro scelte politiche quotidiane, mentre Giovanni XXIII fra molte resistenze avviava il percorso del Concilio Vaticano II.
E’ interessante leggere quell’anno, che ovviamente aveva un prima e un dopo, dal punto di vista delle ACLI milanesi, sia per la loro rilevanza nel complesso del Movimento aclista e quindi del cattolicesimo organizzato italiano, sia per il fatto che, avendo due rappresentanti in Parlamento (Alessandro Butte’ e Vittorino Colombo) e un gran numero di Sindaci, Assessori e consiglieri comunali e militanti impegnati nella Democrazia Cristiana condividevano in qualche misura le responsabilità del partito di governo sia pure con una serie di insofferenze che alla fine del decennio sarebbero culminate nella rottura del rapporto collaterale. L’osservatorio era ancor più privilegiato per la presenza a Milano come Arcivescovo del cardinale Giovanni Battista Montini, che era stato una figura di spicco nella Segreteria di Stato vaticana, da cui era stato allontanato ex abrupto nel 1954 e che appariva come una delle maggiori personalità dell’ala riformista della Chiesa cattolica, considerato con sospetto sia dalla Curia romana che dai suoi colleghi più conservatori come l’Arcivescovo di Genova card. Giuseppe Siri, allora Presidente della CEI.
La III Legislatura repubblicana (1958 – 1963) fu particolarmente instabile. Gli elettori avevano riconfermato una tenue maggioranza alla coalizione centrista (DC –PSDI-PLI-PRI) ma nello stesso tempo, soprattutto all’interno della DC e nei più avvertiti settori culturali e professionali, era nata la tendenza ad una più decisa apertura sociale che realizzasse le premesse della Costituzione e permettesse di rimettere in movimento una dialettica politica ormai semiparalizzata. Ciò pareva possibile passando attraverso il definitivo distacco del PSI dal PCI, favorito dal mutato giudizio sulla situazione internazionale all’indomani del XX Congresso del PCUS e, soprattutto, dei fatti di Ungheria del novembre 1956. Non a caso, la legislatura si era aperta con un Governo guidato dall’allora Segretario della DC Amintore Fanfani, che si basava su di un rapporto privilegiato fra DC e PSDI (“piccolo centrosinistra”, secondo la stampa dell’epoca), il che suscitò forti apprensioni fra le forze conservatrici dentro e fuori il partito di maggioranza relativa, aggravate anche da quelli che parevano gli atteggiamenti autoritari del Segretario – Presidente. Nel gennaio 1959, a seguito di ripetute sconfitte parlamentari da parte di franchi tiratori e alle dimissioni di alcuni Ministri, Fanfani si dimise contemporaneamente dalla guida del Governo e da quella del Partito, venendo sostituito nel primo incarico da Antonio Segni, alla guida di un monocolore democristiano, e nel secondo da Aldo Moro. Contemporaneamente, la corrente maggioritaria di “Iniziativa democratica” si scindeva, e mentre una parte minoritaria rimaneva fedele a Fanfani ridenominandosi “Nuove Cronache”, la maggior parte, riunita intorno a Moro, Rumor, Taviani ed Emilio Colombo si ritrovò nel convento romano delle suore di Santa Dorotea dando vita, appunto, alla corrente dei dorotei che ebbe la maggioranza nella DC per tutti gli anni Sessanta.
Il Governo Segni, che al momento della fiducia ebbe i voti, oltre che di DC e PLI, anche di monarchici e missini, ebbe vita piuttosto breve e travagliata; nell’ottobre del 1959 si svolse a Firenze il VII Congresso nazionale della DC, nel corso del quale i fanfaniani, alleati al cartello delle sinistre interne “Rinnovamento” (che raggruppava le correnti della Base e di Forze sociali), tentarono una rivincita che però venne arginata dai dorotei sulla base di una maggiore reticenza nei rapporti con i socialisti, portando alla riconferma di Moro alla guida del Partito. A seguito delle dimissioni dei Ministri legati alle sinistre DC il Governo Segni dovette dimettersi nel marzo 1960: il Presidente della Repubblica Gronchi incaricò lo stesso Segni di formare un nuovo Governo ma il tentativo fallì. La scelta del Capo dello Stato cadde allora su Fernando Tambroni, esponente dc di secondo piano ma molto ambizioso, che negli anni precedenti aveva gestito per qualche tempo il Ministero degli Interni, che costituì un altro monocolore democristiano il quale ebbe la maggioranza in Parlamento grazie al voto decisivo del MSI, rappresentando un netto spostamento a destra che causò le dimissioni dei tre Ministri che rappresentavano le sinistre democristiane: i basisti Giorgio Bo e Fiorentino Sullo e, fatto rilevante, il fondatore della CISL Giulio Pastore, rappresentante di Forze sociali.
Dopo di ciò Tambroni rassegnò a sua volta le dimissioni, ed un nuovo incarico venne affidato a Fanfani, che stava per dar vita ad un esecutivo a tre DC-PSDI-PRI con possibile astensione socialista, che però, a detta dello stesso Fanfani, abortì sul nascere per resistenze interne di alcuni settori della DC che manifestarono l’intenzione di votare contro ad un Esecutivo troppo sbilanciato a sinistra. A quel punto il Presidente Gronchi confermò il mandato a Tambroni, che qualificò il suo Governo con la formula inedita di “Governo amministrativo” senza però sciogliere l’ambiguità del rapporto con i neofascisti, in un clima di crescenti tensioni sociali e politiche.
Le ACLI milanesi, il cui organo “il Giornale dei lavoratori” (GdL) usciva allora con cadenza settimanale, avevano assunto un atteggiamento positivo verso il tentativo di Fanfani di apertura a sinistra, ed avevano reagito con disappunto alla duplice caduta del leader aretino nel gennaio 1959, insistendo sulla necessità di superare ogni tentazione di ricondurre a destra la dialettica politica del nostro Paese. In un editoriale comparso sul GdL 5/1959, polemicamente intitolato “Che cosa si vuole?”, il Presidente provinciale Luigi Clerici aveva espresso chiaramente la convinzione che, a fronte della relativa moderazione del programma del Governo Fanfani, le reazioni contrarie più vivaci erano venute dalla destra democristiana, e respingeva nettamente, a nome degli aclisti milanesi, ogni ipotesi di “unione sacra” delle forze anticomuniste (monarchici e missini compresi) richiesta invece apertamente da un personaggio della levatura di don Sturzo. In una nota comparsa sullo stesso numero del giornale l’on. Buttè ribadiva la stessa posizione. Qualche settimana dopo, sul n.7 l’on. Colombo dichiarava che i parlamentari aclisti avrebbero sostenuto il monocolore Segni per puro senso di responsabilità in una fase difficile segnata fra l’altro da un aggravarsi della congiuntura economica e da numerosi licenziamenti. L’appoggio delle destre al nuovo Governo era comunque stemperato dal fatto che i voti neofascisti non erano decisivi ai fini dell’ottenimento della fiducia. La stessa posizione, con toni più prudenti, venne ribadita in un ordine del giorno del Consiglio nazionale delle ACLI svoltosi il 4-5 aprile.
Fra l’altro, alla fine del 1959 si tenne la tornata congressuale aclista, e durante i lavoro del Congresso provinciale milanese alcuni delegati avevano presentato un ordine del giorno polemico nei confronti della DC che era poi stato ritirato dopo un intervento di precisazione da parte di Clerici: si trattò probabilmente di un episodio in qualche misura concordato per mandare un segnale alla DC milanese divisa anch’essa nella dialettica fra progressisti e moderati.
Con l’avvento del Governo Tambroni, per la cui sopravvivenza i voti neofascisti erano decisivi, l’accentuazione della critica da parte delle ACLI milanesi fu ancor più significativa, soprattutto dopo il citato ritiro dei tre Ministri della sinistra dc (fra cui, per l’appunto, Giulio Pastore) ed il fallimento del tentativo Fanfani per un nuovo Governo che guardasse a sinistra, che di fatto riconsegnava al MSI uno sgradito ruolo di partnership di Governo (e sul GdL si ironizzava a proposito di quei parlamentari democristiani che avevano invocato “ragioni di principio” contro il sostegno del PSI al possibile nuovo Governo mentre non avevano remore del genere sui voti fascisti).
Sul n. 16 /1960 del GdL Riccardo Porretti ricordava il quindicesimo anniversario della Liberazione, collocando la dialettica politica di quella primavera 1960 in continuità ideale nella lotta fra le forze di progresso e quelle reazionarie. Qualche settimana dopo, sul numero 18, in una nota intitolata “I voti dei fascisti” rilevava come i sei mesi di crisi del Governo Segni e di inizio dell’attività di Tambroni fossero di fatto “sei mesi regalati ai comunisti”, mentre si accentuava l’isolamento della DC dilaniata da feroci lotte interne ed incapace di uscire dal vicolo cieco in cui si era infilata. Da notare che nel riquadro accanto all’articolo in questione veniva riprodotta la famosa “Preghiera del ribelle” di Teresio Olivelli con il significativo occhiello: “Almeno noi ricordiamo le pagine più belle della lotta al fascismo”, chiaro riferimento al fatto che le manifestazioni per il quindicinale della Liberazione erano avvenute sottotono, dal momento che Tambroni non voleva irritare la suscettibilità dei neofascisti. Sul numero 19 (datato 11 maggio 1960) comparve infine il testo di un odg votato dal Consiglio provinciale in cui le ACLI di Milano mettevano in discussione globalmente la politica della DC, contestandone la “remissività” verso i fascisti e facendo appello ai lavoratori cristiani aderenti alla DC affinché si impegnassero sempre più nel partito per mutarne gli orientamenti, e polemizzavano duramente con la stampa conservatrice “anche cattolica” per la sua parossistica campagna contro ogni ipotesi di apertura a sinistra.
In quel periodo – se ne parlò molti anni dopo sia in sede giornalistica che memorialistica- arrivò alla Presidenza delle ACLI milanesi una lettera riservata del card. Montini che in qualche misura censurava l’atteggiamento che il Movimento aveva tenuto fino ad allora sull’attualità politica.
Parlando in termini abbastanza espliciti del fallito tentativo di Fanfani il Cardinale scrive “sollevate scandalo perché una collaborazione governativa non è riuscita; e non pensate, non fate cenno che non è riuscita solo perché i Socialisti non davano garanzie di sufficiente rispetto alle nostre idee e alle nostre cose”. E ancora: “Comprendo molto bene le vostre riluttanze politiche, specialmente in questo momento” e poi: “Non dico di più perché temo che non mi comprendiate, anzi che comprendiate diversamente da quanto vorrei, quasi ch’ io stesso ricada in campo politico e parteggi per una soluzione politica che non piace” e in chiusura “Il momento è penoso e difficile; procuriamo di non aggravarlo”. Da quanto emerso nonché dall’analisi degli storici e dalle testimonianze di coloro che all’epoca erano presenti si possono trarre alcune conclusioni:
- il Cardinale fu in qualche modo spinto a scrivere la lettera da ambienti del Vaticano e della CEI che seguivano con attenzione la stampa e le prese di posizione delle ACLI milanesi valutandone (e forse sopravvalutandone) la forza in un contesto di crisi del sistema politico e delle ACLI stesse ( gli strascichi del Congresso nazionale e dell’aspra dialettica fra il gruppo di Penazzato e quello di Labor stentavano a placarsi); per certi versi fu da parte di Montini una sorta di atto preventivo prima che intervenissero altri con metodi più pesanti. Depone in questo senso il fatto che il card. Montini mandò copia della lettera al card. Siri, come dimostrazione di buona volontà;
- la lettera contesta alle ACLI il fatto di muoversi in un ambito non loro, ma lo fa soprattutto nel timore che il Movimento si esponga troppo in un momento di scarsa chiarezza e di pericolo per gli sviluppi futuri della situazione politica – ed ecclesiale;
- il Cardinale è ben attento a non far sì che gli aclisti confondano il suo richiamo con un’adesione alla formula politica allora vigente, ossia al Governo di centro destra guidato da Tambroni;
- il Cardinale non preclude nettamente l’ipotesi di un accordo con il PSI, ma pone come precondizione il pieno riconoscimento da parte socialista degli “interessi cattolici” (la posizione dei cardinali Siri, Tardini ed Ottaviani, tanto per dire, era più dura e pregiudiziale nei confronti del partito di Nenni) ;
- in ogni caso non c’è alcuna minaccia di sanzioni o richiami pubblici di sorta, ed infatti la lettera venne tenuta riservata da ambo le parti, come pure la risposta.
In ogni caso, nelle settimane immediatamente successive alla lettera i toni del GdL si fanno più sfumati, e sul numero 23 (1 giugno 1960) compare una nota anonima in cui si dà genericamente conto delle conclusioni del Consiglio nazionale della DC che non prendeva alcuna decisione sul Governo Tambroni pur auspicando una ripresa di rapporti organici con PSDI e PRI e un “recupero all’area democratica” del PSI. Sullo stesso numero compare un articolo di Raniero La Valle, tratto dal “Popolo”, organo ufficiale della DC, in cui si valutava criticamente un convegno dei Comitati civici svoltosi a Roma sotto l’egida di Luigi Gedda nel corso del quale personalità della destra democristiana, del MSI e di altri gruppi reazionari spingevano per un consolidamento del Governo Tambroni e per la nascita di un fronte anticomunista ed antisocialista.
Nel numero successivo compariva – significativamente in prima pagina- una “lettera al Direttore”, probabilmente sollecitata, di un dirigente aclista di base, Sandro Pellegatta, in cui si esprimeva il timore che il convegno dei Comitati civici rappresentasse una ripresa di tentazioni clerico- fasciste da cui i lavoratori in generale e quelli cristiani in particolare non avevano nulla di buono da aspettarsi. Sullo stesso numero, sempre in prima pagina di spalla, si dava conto di una notificazione del card. Montini al clero ambrosiano che significativamente riprendeva molti dei concetti espressi nella lettera alle ACLI. Infatti il Cardinale scriveva che l’apertura a sinistra non era da favorire “nel momento presente e nella forma ora prospettata” (e quindi non in assoluto); che non era sua intenzione “allinearci con l’una piuttosto che con l’altra corrente politica o indicare una determinata soluzione governativa” e infine che non voleva privarsi della “facoltà, mutate a nostro giudizio le circostanze, di darvi altre indicazioni” (ossia in sostanza di correggere il divieto ad un accordo col PSI). A fine giugno la situazione precipitava, con l’improvvida decisione di Tambroni di permettere al MSI, imbaldanzito dal suo ruolo di implicito partner di Governo, di celebrare il proprio Congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, affidandone oltretutto la presidenza all’ex Prefetto repubblichino della città.
I violenti disordini di piazza che ne seguirono, causando dei morti sia a Reggio Emilia sia in Sicilia, spinsero la DC a revocare la fiducia a Tambroni costringendolo a dimettersi. Al suo posto si insediava Fanfani alla guida di un monocolore che aveva la fiducia di PSDI, PLI e PRI, e su cui il PSI si asteneva, mentre il MSI tornava all’opposizione. Le ACLI di Milano prendevano atto dell’evoluzione con evidente soddisfazione: subito dopo i disordini di piazza il Consiglio provinciale aveva votato in data 9 luglio un documento in cui si esprimeva cordoglio per le vittime dei tafferugli, una netta condanna del neofascismo, che precedeva la riprovazione per la strumentalizzazione operata dal PCI sulla mobilitazione spontanea di larghi settori popolari, ed un vivo appello alla DC e a tutte le forze democratiche per superare una fase di incertezza e di timori per la tenuta delle istituzioni. Il testo veniva pubblicato sul n. 28 del GdL e sormontava un lungo articolo di Erminio Colnaghi, stretto collaboratore di Clerici e suo sodale nell’ Istituto secolare Cristo Re fondato da Giuseppe Lazzati, sull’autonomia dei laici cristiani in politica che era di singolare preveggenza rispetto alle acquisizioni che sarebbero emerse di lì a qualche anno nel Concilio Vaticano II.
Sul numero 30 si dava conto dell’insediamento del Governo Fanfani, rilevando che a far parte di esso erano stati chiamati i tre Ministri della sinistra dc che si erano mesi prima dissociati da Tambroni, mentre ne erano sbarcati, oltre a Tambroni stesso, i Ministri che gli erano stati più vicini (Togni, Tupini, Ferrari Aggradi.). Il 6 novembre 1960 si teneva il turno elettorale generale nei Comuni e nelle Province, che rilevava una sostanziale contrazione dei consensi della DC ed un aumento di quelli del PCI e del PSDI, mentre missini e liberali crescevano a scapito dei monarchici. Al Comune di Milano la DC confermava i suoi 25 seggi, e fra di essi sette erano gli eletti direttamente sostenuti dalle ACLI (Ester Angiolini, Guido Baglioni, Bernardo Crippa, Filippo Hazon, Ezio Melgrati, Michele Palma e Germano Quadrelli) ; dopo alcune settimane di incertezze nel gennaio 1961 veniva eletto Sindaco l’esponente socialdemocratico Gino Cassinis a capo di una Giunta formata da DC, PSI e PSDI in cui fra gli altri entravano Angiolini e Hazon. A ruota altre Giunte di centrosinistra si formavano a Genova, Torino, Roma e Palermo.
Anche le ACLI, in qualche modo, avevano quindi partecipato al travaglio del Paese e avevano dato un contributo alla sua soluzione in senso democratico.