Addio a Gian Mario Albani. E’ stato presidente delle Acli Milanesi e...

Addio a Gian Mario Albani. E’ stato presidente delle Acli Milanesi e lombarde email stampa

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E’ veramente complicato spiegare oggi ai lettori più giovani chi sia stato Gian Mario Albani, spentosi nei giorni scorsi a Varallo Sesia poco dopo aver compiuto i novant’anni, e che cosa abbia rappresentato per le ACLI, non solo quelle milanesi, e per il mondo cattolico italiano nell’incandescente stagione degli anni Cinquanta e Sessanta.

Era nato a Merate, nella Brianza lecchese, nel febbraio del 1927 da una famiglia operaia, e si era impiegato giovanissimo nella locale filiale della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Durante questo periodo aveva partecipato all’organizzazione dei “raggi” dell’Azione Cattolica (nuclei aziendali), tra i pendolari, operai e impiegati nelle fabbriche di Sesto San Giovanni, di Greco e Milano in vista degli scioperi del marzo 1943. Nel 1944 era stato licenziato per motivi politici dal capo filiale repubblichino.

A 18 anni prese parte alla lotta di liberazione, aggregato alla brigata Puecher del raggruppamento patrioti Alfredo Di Dio, e nel marzo 1945 venne nominato segretario del CLN di Merate. Nel 1946 presso la Camera del Lavoro di Milano lavorò nella segreteria della Corrente sindacale cristiana, e poi alle ACLI milanesi, di cui di fatto è stato uno dei fondatori, dove in preparazione del 1° congresso della CGIL (Firenze, giugno 1947), divenne segretario per l’Alta Italia dei gruppi ACLI-Industria.

Dopo la rottura dell’unità sindacale (luglio 1948), partecipò alla costituzione della Libera CGIL (Roma, settembre 1948), poi anche alla fondazione della Libera Federazione dei Lavoratoti Tessili (Monza, ottobre 1948), presso la quale diresse l’ufficio stampa. Licenziato nella primavera del 1949 per dissensi con i dirigenti, fu inviato a Varallo Sesia da Giulio Pastore e nominato segretario della locale Unione Sindacale CISL. Nell’anno 1951-1952 ha frequentato la scuola di sindacalismo presso il Centro Studi CISL di Firenze, dove si legò di fraterna amicizia con Benedetto De Cesaris, che ne era il direttore.

Nel 1952-53 fu segretario dell’Unione Sindacale CISL di Imola (Bologna), poi nel 1954 venne inviato a Ferrara come segretario provinciale dell’Unione Sindacale CISL. In ottobre del 1956 fu destituito dalla segreteria e dal direttivo nazionale della CISL perché le sue posizioni sull’unità sindacale non coincidevano con quelle della dirigenza confederale.

E’ qui che nasce l’Albani aclista, nel senso che, ridotto alla disoccupazione, egli si rivolse per un aiuto al Presidente delle ACLI milanesi Luigi Clerici, che lo assunse come responsabile dei corsi formativi: di fatto, e per oltre dieci anni, Albani fu ubiquo in tutti i Circoli ed i corsi residenziali organizzati dalle ACLI milanesi, scrivendo dispense formative, decine e decine di articoli per il “Giornale dei lavoratori” (allora settimanale) , relazioni per i Congressi e per gli Incontri di studio. Soprattutto, iniziò ad aggregare intorno a sé una nuova generazione di militanti che sarebbero diventati nel corso degli anni fra le più importanti figure dirigenziali delle ACLI milanesi, da Pietro Praderi a Corrado Barbot, da Alfredo Camisasca a Riccardo Porretti. Questo gruppo venne definito con intenzione ironica abbastanza scoperta come gli “albanesi” (a cui vennero contrapposti i “colombiani”, ossia i dirigenti che si riconoscevano nella leadership di Vittorino Colombo, “deputato aclista” fin dal 1958), e si contraddistingueva per una forte accentuazione della tematica dell’autonomia del sociale applicandola anche al Movimento aclista, pur non mettendo in discussione (almeno apertamente ) il legame fra ACLI e DC. L’obiettivo – come chiarì alcuni anni più tardi lo stesso Albani – era quello, assai futuribile, di un superamento delle divisioni fra le forze del lavoro che arrivasse a dar vita ad un grande partito di matrice progressista e laburista in cui confluissero i soggetti allora dispersi fra DC, PCI, PSI ed altre sigle. Non è un caso, del resto, che Albani abbia sempre diffidato di Livio Labor – che lo ripagava allo stesso modo – poiché lo considerava un politico di schieramento, come si diceva allora, più attento all’equilibrio fra le sigle politiche e sindacali che alle reali dinamiche della società civile e del movimento dei lavoratori.

L’equilibrio fra le due componenti venne mediato in modo sempre più faticoso dal Presidente Clerici, che nel 1963 lasciò definitivamente il suo incarico al XIV Congresso provinciale: il Congresso tuttavia non espresse una maggioranza chiara, e la presidenza di Battista Colombo si caratterizzò per la continua ricerca di un equilibrio fra le due componenti, ambedue rappresentate in Presidenza. Il logoramento continuò fino al novembre del 1964, quando lo stesso Albani assunse la guida del Movimento sommandola a quella regionale che già deteneva da un anno (e contemporaneamente si dimise dall’incarico professionale di Segretario del Piano intercomunale milanese e dal CdA della Centrale del Latte di Milano). Lo stesso Albani ammise successivamente di avere affrontato quell’esperienza con un approccio troppo aggressivo e, come si direbbe oggi, divisivo, senza peraltro poter contare su di una maggioranza chiara in Consiglio provinciale: infatti, quando nell’aprile del 1966 durante una scuola dei quadri dirigenti egli mise sotto accusa quelle che considerava le componenti più arretrate del Movimento, di cui contestava soprattutto le carenze formative e l’eccesso di appiattimento sulla DC ed in particolare sulla componente di Forze Nuove, la sua Presidenza entrò in crisi e venne sostituito da Ilario Bianco, esponente dell’altro gruppo e futuro parlamentare.

Il XV Congresso provinciale (ottobre 1966) segnò una netta affermazione del gruppo più legato ad Albani, che fu il primo degli eletti in Consiglio provinciale: tuttavia, al momento della scelta del nuovo Presidente, considerazioni legate alla personalità di Albani stesso consigliarono di non riproporlo all’incarico di massima responsabilità, che venne affidato ad uno dei giovani cresciuti con lui, Pietro Praderi, mentre Albani veniva ricondotto alla Presidenza regionale e alla responsabilità dell’Ufficio studi provinciale. Da qui nacque in lui una crescente insofferenza, che si manifestò in gesti politicamente provocatori, come la partecipazione alla grande manifestazione contro la guerra in Vietnam promossa dalle sinistre il 2 giugno 1967, che venne esplicitamente avversata dalla DC. Una serie di ragioni non solo di natura politica spinsero Albani l’anno successivo ad accettare la candidatura al Senato nel collegio di Abbiategrasso che PCI e PSIUP gli offrirono come indipendente di sinistra: il fatto è che quelle del 1968 furono le ultime elezioni in cui le ACLI appoggiarono ufficialmente la DC (e a Milano in particolare di due deputati uscenti Vittorino Colombo e Alessandro Butté), e questo provocò una forte reazione a più livelli. Infatti, la stampa di destra, cattolica e non, ne approfittò per mettere le ACLI sotto accusa per filocomunismo (come del resto sosteneva da anni), e la stessa Curia ambrosiana manifestò gravi preoccupazioni.

La Presidenza provinciale al gran completo chiese ed ottenne una visita “riparatrice” al card. Giovanni Colombo, allora Arcivescovo di Milano, e in un comunicato si dissociò duramente da Albani al quale venne chiesto di non rinnovare la tessera se non voleva incorrere in una procedura di espulsione. E’ singolare constatare che questo accadde esattamente un anno prima che le ACLI sancissero nel Congresso nazionale di Torino il venir meno del rapporto collaterale con la DC e la libertà di voto degli aclisti, ma in politica il tempo è tutto, e Albani si ritrovò in qualche modo fuori tempo.

Il suo mandato senatoriale fu segnato da un grande attivismo, ma anche da una serie di incomprensioni con i suoi stessi colleghi di gruppo della Sinistra Indipendente e con il gruppo dirigente del PCI (significativo l’accenno abbastanza liquidatorio che ne fa un uomo tanto diverso da lui come Giorgio Napolitano nelle sue memorie), al punto tale che nel 1972 Albani venne ricandidato in un collegio assai meno favorevole e non rientrò in Senato. Da allora e fino al pensionamento nel 1987 egli visse in una situazione di precarietà, dopodiché si ritirò a Varallo Sesia insieme alla moglie, dove continuò, pur con qualche problema di salute, a mantenersi attivo nello studio e nell’attività di volontariato.

La sua è stata una vicenda umana insieme ricca e contraddittoria, figlia della storia del Novecento che egli visse in pienezza e senza risparmio, ma la sua attività di ricercatore e di formatore costituiscono il suo lascito più significativo, e per questo le ACLI e gli aclisti gli sono riconoscenti.