Ci sono figure – ormai molto poche- di cui si può dire con assoluta certezza che la loro passione per la politica coincide con tutta la loro vita: Ciriaco De Mita, che ci ha lasciati il 26 maggio a 94 anni, è stata una di queste, e non soltanto perché fino all’ultimo volle rimanere in una dimensione istituzionale, guidando la piccola comunità avellinese di Nusco, la sua terra, cui era visceralmente legato.
Si può dire che quella di De Mita sia stata una passione autentica ma “fredda”, sempre dominata dall’esigenza di comprendere i passaggi più delicati dell’attualità e del saperli collocare in una prospettiva storica senza abbandonarsi alle facili emozioni e nemmeno alle esigenze della quotidianità, che pure egli riconosceva e praticava in quella che ad alcuni sembrava una forma di doppiezza ed era, invece, l’ordinaria contraddizione di chi la politica non si limita a studiarla ma la vive.
Cresciuto in un contesto rurale, cercò nello studio il riscatto sociale e riuscì ad arrivare a Milano, all’Università Cattolica, dove respirò il grande cambiamento in atto nel Paese e le nuove tensioni che attraversavano la parte più consapevole del mondo cattolico, giunto all’improvviso ad esprimere la classe dirigente del Paese.
E a Milano ebbe la sua iniziazione politica partecipando fin da subito all’attività della corrente di Base, formata da ex partigiani bianchi (come Giovanni Marcora), da ex aderenti al disciolto gruppo dossettiano e da giovani intellettuali come lui (fra cui l’autodidatta Luigi Granelli) , che si poneva come obiettivo quello di riscattare la Democrazia Cristiana dalla dipendenza nei confronti della Gerarchia ecclesiastica e della Confindustria, potendo vantare un solido legame con il Presidente dell’ENI Enrico Mattei, anche lui ex comandante partigiano, che con metodi non sempre ortodossi rivendicava all’impresa pubblica il ruolo di traino dello sviluppo di un Paese che stava rapidamente rialzando la testa dopo la tragedia bellica.
Entrato nel Consiglio nazionale della DC già nel 1956, De Mita si batté per l’apertura ai socialisti e la realizzazione del primo centrosinistra, venendo eletto per la prima volta alla Camera nel 1963 ed affermandosi come uno dei leader emergenti di un partito che sempre più agli occhi dell’opinione pubblica appariva come una federazione di correnti.
Diede prova di notevole spregiudicatezza quando, nel 1969, si accordò con Arnaldo Forlani, già stretto collaboratore di Fanfani, per una complessa operazione di potere volta a pensionare i vecchi leader, spaccare in due il gruppo dirigente doroteo e dare al partito una nuova dirigenza basata sulle forze più giovani. In effetti, puntualmente, il gruppo doroteo si scisse e Forlani arrivò alla guida del partito con De Mita come vicesegretario anche se, contraddittoriamente, tale stagione ebbe il suo epicentro con il Governo, formato da Giulio Andreotti dopo le elezioni del 1972 che vedeva il ritorno dei liberali e il passaggio all’opposizione dei socialisti, facendo sterzare a destra l’asse politico del Paese.
Un anno dopo il cosiddetto “accordo di Palazzo Giustiniani” fra Fanfani, Moro e gli altri notabili del Partito riportò il leader toscano alla guida del Partito mentre De Mita negli anni successivi avrebbe occupato una serie di incarichi governativi, secondando il tentativo di rinnovamento della DC condotto da Zaccagnini e Moro negli anni della solidarietà nazionale.
De Mita divenne Segretario della DC nel 1982, in una fase di evidente affaticamento del profilo politico e morale del Partito, reso evidente dal susseguirsi di scandali e di accuse di malaffare (erano gli anni della P2 e delle collusioni di diversi esponenti democristiani con la criminalità organizzata), e che nel 1981 aveva portato alla convocazione della cosiddetta Assemblea degli esterni, dove numerosi esponenti del mondo cattolico avevano espresso un credito condizionato al Partito purché esso avesse una reale volontà di riformarsi.
Il programma di De Mita era ambizioso, poiché si proponeva di rinnovare il Partito mentre governava, eliminando le figure più compromesse e puntando sul rinnovamento della classe dirigente. Più in generale, De Mita aveva chiaro come la questione istituzionale fosse centrale per la ridefinizione dell’efficienza della macchina dello Stato e anche per la riconduzione delle forze politiche al loro compito originario, andando oltre quella “occupazione dello Stato” che uno dei suoi mentori, Leopoldo Elia (già consulente giuridico di Aldo Moro), aveva denunciato fin dal 1965. Gli anni Ottanta vennero segnati dalla contrapposizione fra De Mita ed il Segretario del PSI Bettino Craxi, il quale era impegnato da un lato in una battaglia per la ripresa dell’egemonia a sinistra, nel momento in cui il ruolo del PCI appariva declinante, e dall’altro rivendicava la centralità del suo partito nell’alleanza competitiva con la DC e con le altre forze del pentapartito, ponendo la questione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica come metodo per by-passare, grazie alla sua indubbia popolarità, il ruolo tuttora preminente dei due maggiori partiti popolari.
La linea demitiana, che indubbiamente dal cattolicesimo democratico mutuava una forte impronta laica riscuoteva consensi nell’associazionismo tradizionale, comprese le ACLI, guidate allora da Domenico Rosati e Giovanni Bianchi, e di matrice aclista era pure uno dei più ascoltati consiglieri del Segretario, Ruggero Orfei. Fu lui a valorizzare figure di giovani dirigenti provenienti da diverse realtà territoriali, che furono impropriamente chiamati “colonnelli” quando in realtà erano interpreti di un pensiero politico diffuso: fanno spicco i nomi di Bruno Tabacci, Pierluigi Castagnetti, e, ovviamente, Sergio Mattarella.
De Mita arrivò alla guida del Governo nella primavera del 1988, ma la sua azione venne fortemente limitata dalla litigiosità della maggioranza e dal crescente malumore dei settori moderati del Partito verso la pretesa del nuovo premier di mantenere anche la guida del Partito (una cosa normale nel resto dell’Europa, ma che in Italia continua a suscitare problema adesso come allora): è significativo però che è proprio grazie all’impulso di De Mita che si arrivò ad approvare la legge 400/1988 che finalmente definiva e specificava le funzioni del Presidente del Consiglio e il suo ruolo di guida effettiva del Governo, che fino ad allora erano rimaste prive di regolazione.
Privato prima della Segreteria e poi della guida del Governo nel 1989, De Mita non rinunciò mai alla politica e si batté per il rinnovamento istituzionale, anche se avversò il movimento referendario guidato da Mario Segni. Negli anni successivi, in Parlamento e fuori di esso, espresse sempre il suo autorevole parere sulle questioni principali della vita politica italiana, pur rimanendo scettico su alcuni suoi protagonisti.
Commise molti errori, e non sempre certi suoi comportamenti furono all’altezza delle idee che professava, ma certamente egli è stato uno degli ultimi giganti della politica in un Paese che nella politica e nelle istituzioni ha sempre meno fiducia (e questo fu il tormento dei suoi ultimi anni).