
Mentre il mondo intero, ormai vittima di una crisi senza confini, sembra precipitare in un vortice di crescente tensione e incertezza per il futuro, sono numerosi gli ambiti della società civile e politica toccati da quella che è stata definita “prova di maturità per una generazione baciata dalla sorte” (Andrea Scurati, Corriere della Sera).
Economia, politica, vita sociale: tutti ambiti a cui potevamo dare un volto prima della pandemia; tutti ambiti che, con ogni probabilità, andranno ripensati e ricostruiti una volta che ne saremo usciti.
Ma le emergenze attuali e di grandi dimensioni come questa hanno anche un pregio: la loro virulenza ci permette di svegliarci dal “torpore di un benessere senza limiti” e catalizza la nostra attenzione su problemi gravi che, fino a questo momento, avevamo semplicemente messo in un angolo, come se non ci riguardassero.
Il sovraffollamento nelle carceri italiane non è una novità: stando alle analisi più recenti (Ministero della Giustizia, 29 febbraio 2020), nel nostro paese si contano 61.230 persone che stanno scontando una pena detentiva, a fronte di una capienza regolamentare delle carceri pari a 50.931 posti.
Se guardiamo al trend degli ultimi 20 anni la prospettiva non è certo più rosea: alla fine del 2019 i detenuti erano 60.769. Il numero era progressivamente aumentato da fine 2015, quando erano calati a 52.164, ed è il più alto dal 2013, quando si era raggiunta quota 62.356. Negli anni precedenti, tra il 2009 e il 2013, i detenuti sono sempre stati più di 60 mila, a volte anche vicini ai 70 mila. Anche solo negli ultimi dieci anni, come abbiamo visto, la popolazione carceraria ha oscillato tra i quasi 50 mila e i quasi 70 mila detenuti. La capienza regolamentare degli istituti nello stesso periodo è cresciuta ma non a sufficienza: secondo l’ISTAT siamo passati dai circa 45 mila posti del 2010 ai 50 mila di fine 2019.
La notizia dell’epidemia in corso, calata in un contesto come questo, ha avuto effetti dirompenti: disordini e proteste si sono verificati a Frosinone, Modena, Piacenza, Ferrara, Reggio Emilia, Bologna, Napoli, Torino, Salerno, presso gli istituti “San Vittore” a Milano e “Rebibbia” e “Regina Coeli” a Roma. Le proporzioni della sommossa sono dunque nazionali e vengono registrati atti anche gravissimi da parte dei detenuti: da semplici proteste verbali a devastazioni, saccheggi, evasioni di massa fino alla presa in ostaggio di agenti della polizia penitenziaria.
Ovunque le motivazioni sono le stesse: chi chiede di essere rilasciato temendo il contagio da Coronavirus, chi protesta contro le restrizioni ai colloqui coi parenti imposte dalle autorità, chi, semplicemente, cavalca una situazione di disordine per sfuggire al proprio debito con lo Stato. Fra queste, la prima è sicuramente la più valida e quella meglio collegata al tema del sovraffollamento: fin dagli esordi del contagio, tutte le autorità, mediche e politiche, sono state chiare e concordi: evitare assembramenti e ridurre le distanze interpersonali. Come è possibile seguire tali prescrizioni (riducendo così i rischi per la propria salute) in uno scenario come quello mostrato dai dati? Essere detenuti non equivale all’improvvisa cancellazione dei diritti umani (lo provano le sentenze di condanna della CEDU all’Italia in riferimento alla situazione delle carceri), fra i quali si annovera, appunto, il diritto alla salute.
Alcuni hanno proposto di utilizzare gli strumenti dell’amnistia o dell’indulto per far fronte a questa situazione: questo potrebbe forse contenere la crisi odierna, ma non risolverà mai il problema sistemico, ossia quello del sovraffollamento. Infatti, se torniamo ai dati relativi alla popolazione carceraria, tra il 2006 e il 2008 si sono registrati numeri significativamente più bassi, ma in costante aumento dal minimo dei 39.005 del 2006, quando era stato appunto varato un indulto. L’esperienza ci insegna quindi la temporaneità della soluzione e la conseguente ricostituzione di una realtà di sovraffollamento.
In conclusione, la diffusione improvvisa e velocissima di questa emergenza sanitaria ci ha fatto capire una cosa: nessuno prevede il futuro. Anche in un momento storico come il nostro, in cui la tecnologia e la scienza hanno raggiunto livelli inediti, non possiamo affidarci a soluzioni temporanee per risolvere problemi sistemici come quello delle carceri italiane, perché, passata una crisi, nessuno sa quando ne arriverà un’altra.
Dovremmo invece cogliere l’opportunità che ogni crisi offre: quella di riflettere, di ripensare e ricostruire i fondamenti della nostra società su basi sempre più solide.