Doveva essere una serata… è diventata una splendida avventura

Doveva essere una serata… è diventata una splendida avventura email stampa

Da oltre un anno lo spettacolo "Terzo tempo - una storia di rugby, fiducia e squadra" attraverso parole, immagini e musiche live racconta la storia di Nelson Mandela e di come il futuro premio Nobel per la pace usò il rugby per unificare il Sudafrica dopo i decenni bui dell'apartheid.

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Il bambino ha una giacca a vento blu e i capelli di quello che col barbiere non va tanto d’accordo. Mi viene incontro col passo sicuro e quando capisco che vuole parlare proprio con me mi chino per mettere gli occhi alla stessa altezza dei suoi. “Io gioco a rugby” mi dice, con quel misto di imbarazzo e sfrontatezza che hanno i ragazzini quando vogliono far capire ai grandi che hanno qualcosa di importante da dire; “domani gioco a Parma”. “Ma dai, davvero? Che bello” gli rispondo. “E in che ruolo giochi?”. “Ala”, dice lui, orgoglioso. “Come Jonah Lomu, allora”; “Sì”, sorride lui, incurante dei due incisivi che gli mancano. “Come ti chiami?”. “Jordan”. “Ti è piaciuto lo spettacolo, Jordan?”. “Sì, molto”. “Sono contento. Senti, allora in bocca al lupo per domani”. “Grazie, ciao”, e corre dal papà.

I capelli bianchi si dice che servono a qualcosa: dev’essere vero, certo però non a imparare che le cose possono sfuggirti di mano e diventare qualcosa che non avresti immaginato. “Terzo tempo”, che per un anno ha girato i circoli di Milano e provincia, è stato questo. Un’idea nata poco meno di due anni fa, stappando birre nel parcheggio di un autogrill mentre andavamo a guardare la nazionale italiana farsi prendere a sberle dalla Scozia. Doveva essere una serata, è diventata una specie di piccolo giro della provincia che forse non è ancora finito: non è certo il racconto della storia di Nelson Mandela e di una partita di rugby a cambiare la vita della gente, ma forse è il modo che vi lascia dentro qualcosa. E’ un modo che abbiamo tutti imparato e provato a praticare nei nostri anni di aclisti e di gente che prova a stare al mondo con dignità, riassunta in un’immagine del rugby che a me è sempre sembrata bellissima. Come in tutti gli sport di squadra ci sono i ruoli: ci sono i piloni, le ali, le terze e le seconde linee. Ci sono quelli di talento e quelli bravi a far legna, quelli che si prendono le foto e quelli che si prendono le botte, almeno più degli altri. Ma nel rugby quando difendi, e soprattutto quando difendi negli ultimi cinque metri, quello che si vede è una lunga striscia di quindici uomini con la maglia uguale, tutti sulla stessa linea che si muovono in sincronia come i ballerini di Broadway, tutti un passo a sinistra, tutti due passi a destra seguendo il movimento del pallone della squadra avversaria. Non c’è uno più avanti o uno più indietro degli altri. Non c’è la star. C’è una squadra. Forse è quello che ha sentito anche Jordan, che chissà se oggi è riuscito a correre con la palla ovale stretta al petto come faceva Jonah Lomu che giocava ala come lui, chissà se è riuscito a rompere il primo placcaggio, e poi il secondo e il terzo e a quel punto si è trovato davanti un grande prato, con i pali della porta là in fondo ad aspettarlo, e allora ha corso, corso, corso, felice come il bambino che è. Ciao Jonah. Ciao Jordan.

Il  trailer dello spettacolo