Sul Corriere della Sera dello scorso 11 novembre 2020 Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale I localismi frenano le scelte ha messo in evidenza i difetti ed i problemi sollevati dall’attribuzione di vasti poteri alle regioni, particolarmente evidenti nella gestione dell’emergenza sanitaria.
L’Autore imputa alla riforma del Titolo Quinto della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001 la responsabilità principale. Nell’originaria previsione dell’art. 117 le regioni avevano competenza concorrente con lo Stato per l’assistenza sanitaria e ospedaliera, con la riforma del 2001 la competenza regionale si è estesa a ricomprendere la più vasta e comprensiva tutela della salute.
Va tuttavia ricordato che la riforma del 2001 ha consolidato, più che innovato, sul piano costituzionale, la tendenza alla riunificazione dell’intera materia sanitaria che la legislazione ordinaria aveva già anticipato, consentendo alle regioni di regolare tutti gli aspetti che, direttamente o indirettamente, mirano alla tutela del bene salute (D. Morana, La tutela della salute fra competenze statali e regionali: indirizzi della giurisprudenza costituzionale e nuovi sviluppi normativi, in Osservatorio costituzionale, n. 1/2018, p.2), e, comunque, come ha fatto notare il Prof De Siervo su La Stampa del 17 novembre, il Governo godeva allora e gode oggi di ampie competenze, anche straordinarie, in materia di emergenza sanitaria, secondo l’art. 117, comma 1, lett. q), Cost.
Non va comunque sottaciuto che con la riforma le regioni hanno accresciuto nel complesso i loro poteri, sia in ordine alle materie di disciplina concorrente stato – regione – si pensi, ad esempio, all’urbanistica diventata il più ampio “governo del territorio” – sia in ordine a tutte le materie residue come i servizi sociali che non sono comprese né nell’elenco di quelle su cui lo Stato le esercita in via esclusiva né in quello delle materie concorrenti, e che appartengono alla competenza regionale pressoché esclusiva. Oltretutto l’art. 116 della Costituzione riconosce alle regioni la possibilità di aumentare i loro poteri, il cosiddetto regionalismo differenziato, per il quale in Veneto e in Lombardia sono stati celebrati a favore due referendum consultivi e altrettanto si sono espressi i consigli regionali dell’Emilia Romagna, del Piemonte e della Liguria.
Elezione diretta del presidente della regione e aumento delle competenze, hanno fatto delle regioni un sistema di contropoteri istituzionali e politici forte.
Al contrario, Galli della Loggia nella cosiddetta Prima Repubblica, è l’opinione di Galli della Loggia, il tessuto connettivo forte della nazione era il sistema di partiti strutturati dal centro alla periferia con una classe dirigente omogenea, autorevole e rappresentativa del corpo elettorale, perciò il conflitto era, o attenuato come nel rapporto con le regioni “rosse”, o inesistente come nel rapporto con le regioni governate dal centrosinistra, mentre nella fase attuale della Seconda o Terza Repubblica l’assenza di partiti connettivi della società ha favorito l’emergere di leadership locali che trattano con il centro e con i rispettivi partiti di appartenenza come potenze autonome che possono prescindere dal partito di appartenenza (si pensi al caso dell’Emilia Romagna dove il candidato Presidente non ha voluto accanto a sé neppure il segretario del suo partito), o che addirittura ne umiliano la rappresentanza (si pensi nel Veneto alla Lista del leghista Zaia che ha distrutto elettoralmente quella della Lega).
I leader regionali si configurano come potentati feudali che negoziano con il centro il loro potere. Questa struttura dell’organizzazione del potere porta con sé inevitabilmente i germi della conflittualità, anche in caso di emergenza, ed ha esaltato ed esasperato il fenomeno del localismo.
Partiti senza identità. Corpi intermedi sociali rivendicativi e spaesati
Il tema della debolezza, per non dire dell’evanescenza dei partiti di oggi – ed in genere del mondo sindacale e associativo complessivamente impreparato a fronteggiare la globalizzazione e incline ad assumere atteggiamenti rivendicativi -, della loro incapacità o difficoltà di interpretare i segni tempi e di guardare lungo in una prospettiva che traguardi l’eccezionalità del momento e che dia indicazioni per il dopo (illuminate in questo senso è l’articolo di Romano Prodi su il Messaggero, La battagli anacronistica dei dipendenti pubblici), è certamente fondato ed è una delle cause della debolezza del sistema politico – istituzionale.
L’articolo di Galli della Loggia lascia sullo sfondo un’altra causa della debolezza del sistema della forza del localismo dovuto alla diversa legittimazione delle forme di governo centrale e locale.
La forma di governo regionale è sostanzialmente presidenziale, espressione del voto popolare diretto e munito di una legittimazione forte, a fronte della quale, la forma di governo parlamentare nazionale, imperniata sul voto di fiducia e quindi sulla legittimazione popolare mediata dalle assemblee rappresentative, appare debole e poco rappresentativa dell’effettiva volontà del corpo elettorale.
Eppure il governo parlamentare altrove in Europa (Regno Unito, Germania) conserva autorevolezza e capacità decisionale, pur dovendosi confrontare con la autonomie locali, in virtù di un sistema partitico forte.
Al contrario in Italia la scarsa qualità del sistema dei partiti genera un quadro politico fragile e connotato dall’assenza di una visione per il futuro del paese.
La fragilità e la mancanza di orientamenti comuni di fondo si riverbera sugli equilibri politici, sui loro contenuti, quindi in ultima istanza sull’autorevolezza e capacità decisionale del governo, che la probabile prossima legge elettorale proporzionale andrà ad aggravare.
Alla scarsa autorevolezza del governo espressione dei partiti di oggi va anche aggiunta la storica dipendenza dello Stato, in quanto apparato organizzativo, dalla legittimazione dei partiti. Lo Stato repubblicano ha trovato la sua (ri)legittimazione attraverso i partiti antifascisti e da questi è stato per così dire colonizzato, o meglio, ricolonizzato, dopo il ventennio fascista che aveva inteso identificare il regime nello Stato (De Felice, Lo Stato totalitario, in Storia d’Italia del XX secolo, Roma 2007, p.10).
Fintanto che i partiti sono riusciti ad essere effettiva cinghia di trasmissione della società nello Stato e sin tanto che la società ha trovato in essi la forma della rappresentanza politica, attraverso classi dirigenti e leader di livello, l‘asse società – Stato – Governo ha retto, benché non vada dimenticato che il patto società – Stato si è per decenni largamente alimentato e retto con l’espansione della spesa pubblica ed è entrato in crisi sia per il venire meno del fattore esterno della Guerra fredda, che ha imposto un quadro politico a schema obbligato: Dc e alleati al governo, PCI all’opposizione, sia per quello interno della rottura dell’equilibrio ceto medio – spesa sociale – partiti rappresentato dalla indisponibilità del primo a continuare a partecipare al patto sobbarcandosi un carico fiscale importante non più compensato da vantaggi e ritorni in termini di servizi e di rendite di posizione.
Il paradosso dell’attuale situazione è che i leader regionali vengono da quel mondo politico, ma sono riusciti a non essere più di quel mondo. Questa trasfigurazione e stata resa possibile dalla loro elezione diretta che li ha resi autonomi, per non dire anche indipendenti, dal mondo politico che li ha originariamente espressi (non è un caso che tutti i presidenti di regione eletti a settembre abbiano avuto liste civiche con il loro nome).
Il sistema politico, ha avvertito il Professor Panebianco sul Corriere della sera del 29 novembre scorso, va evolvendo verso una situazione paradossale, dove in periferia, a causa dell’elezione diretta di sindaci e presidenti si perpetua la contrapposizione bipolare destra – sinistra, mentre al centro la prossima e probabile legge elettorale proporzionale tenderà a sfumare questo schema, favorendo nel tempo il desiderio e la necessità di un centro ora sguarnito tanto sul lato di destra con il dissolversi di Forza Italia, quanto sulla sinistra con il fallimento del PD come partito di centrosinistra.
Tuttavia, quali che siano state e siano le cause della decadenza del sistema politico, il fatto è che, allo stato, abbiamo un sistema delle autonomie con governi resi forti della legittimazione diretta del voto popolare e un governo centrale debole espressione ed emanazione di quella decadenza politica.
Un presidente con poteri di governo
La forma istituzionale di governo non è dunque una variabile indipendente del gioco e degli equilibri politici. L’attuale situazione dei rapporti di forza politico – istituzionali, l’emergere prepotente del localismo non controbilanciato ad un’efficiente azione degli appartai statali, richiedono il ripensamento della forma di governo parlamentare della Repubblica ed il passaggio ad un modello di legittimazione diretta del corpo elettorale degli organi di vertice dello Stato, che potrebbe ispirarsi a quello semipresidenziale con Il Presidente della Repubblica eletto a suffragio universale che nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questi, nomina gli altri membri del governo, e che presiede il Consiglio dei ministri.
Seguendo lo schema della Repubblica francese, si avrebbe una forma duale Presidente – Governo, espressione della fiducia del Parlamento, ma in grado di riassumere nella legittimazione diretta del Presidente la forza del significato dell’unità nazionale come appartenenza ad unica comunità.
Nell’attuale quadro ordinamentale il Presidente della Repubblica è garante dell’unita nazionale, rappresenta la nazione, avendo una posizione di terzietà rispetto a tutti i poteri non è direttamente coinvolto nel loro esercizio, ma svolge ugualmente uno ruolo di indirizzo/ammonimento (si pensi alla lettera – indirizzo al Parlamento del Presidente Mattarella sui cosiddetti decreti Sicurezza) e, talvolta, di supplenza e surroga del sistema politico (si ricordi il caso dei cosiddetti “governi del Presidente” di cui il Governo Monti è stato l’esempio più evidente).
Si può osservare che, tuttavia, l’elezione indiretta del Presidente della Repubblica oggi vigente non è di per sé elemento che ne diminuisce il ruolo politico – istituzionale né, attraverso le “esternazioni presidenziali atipiche” (messaggi radiotelevisi, interviste, lettere, discorsi), viene meno la sua possibilità e capacità di mettersi in contatto diretto con il corpo elettorale e con la nazione, svolgendo un ruolo essenziale di raccordo tra popolo e istituzioni, specie in momenti di crisi politica o di sfiducia verso le istituzioni stesse.
La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica sono più che mai centrali e determinanti per la definizione degli equilibri politici. Tra i moventi costitutivi dell’attuale Governo vi è stato quello non certo secondario di avere come traguardo l’elezione del Capo dello Stato con una maggioranza non di destra e tuttavia la maggioranza attuale non potrà non coinvolgere anche la destra, se non altro perché controlla il 46% dei grandi elettori presidenziali e perché PD e 5Stelle non sono in grado per varie ragioni di esprimere un’alleanza di prospettiva.
Quel che qui si propone, pur nella consapevolezza che la regola istituzionale non è di per sé in assoluto lo strumento risolutivo dei problemi politici, è un modo diverso di reinterpretare la sovranità popolare che si esercita nei limiti e nelle forme della Costituzione (art. 1) e di riportare lo scettro dell’indirizzo al titolare di questa sovranità che, secondo il dettato e lo spirito dell’art. 49 Cost., sono “Tutti i cittadini”, i quali “hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Dove il titolare dell’indirizzo è il cittadino ed il partito lo strumento, non esaustivo, ma certamente preponderante nell’ambito di una Repubblica parlamentare.
L’esperienza dell’elezione diretta di sindaci e presidenti di regione ha dimostrato che è possibile un governo dualistico: sindaco/presidente – assemblea rappresentativa in grado di dare eguale legittimazione ai due organi: uno che rappresenta l’ente e presiede la giunta, l’altro che rappresenta le diverse posizioni politiche.
Il livello di disunità che ha raggiunto il nostro paese e la cronica contestazione dei poteri locali (forti) verso quello centrale (debole), anche quando ha gli strumenti per esercitare i suoi poteri in via straordinaria (vedi l’attuale emergenza sanitaria), rendono chiaro come è il sistema politico ad essere entrato nel suo complesso in un loop dal quale autonomamente non è in grado di uscire, né un’eventuale futura vittoria del centrodestra a livello nazionale riuscirà ad eliminare i fattori di debolezza e contraddizione interna, né ad eliminare la conflittualità centro – periferia, che forse verrebbe attenuata con le regioni visto che in maggioranza sono governate dal centrodestra.
La crisi di sistema è strutturale e deriva dalla mutazione genetica dei partiti – idee a partiti padronali, o personali, e comunque leaderistici, come la parabola discendente dei 5 Stelle dimostra in modo del tutto evidente: senza un leader forte di riferimento il movimento va in corto circuito, non essendo sufficiente il ricorso al debole armamentario ideologico per costruire una politica e una rappresentanza durevoli nel tempo.
Se mai si arrivasse all’elezione diretta del Capo dello Stato, inevitabilmente si dovrebbe pensare anche ad un contestuale e adeguato sistema di contrappesi attraverso una legge elettorale che consegni un Parlamento e un governo espressione del voto della maggioranza degli elettori, che bilanci la forza del Presidente.
L’altro contrappeso dovrebbe essere costituito da una radicale profonda riforma dell’apparato burocratico – amministrativo, appesantito da un numero diabolico di adempimenti dovuti a leggi e norme orami costantemente malfatte e confuse.
La riforma della Pubblica amministrazione richiede che alla qualità delle norme si associ la qualità e l’indipendenza dei funzionari, ma richiede anche una classe politica professionalmente preparata che capisca che, fatta la legge, occorre verificarne la sua attuazione e la sua idoneità allo scopo per il quale è stata approvata.
In Paese come è il nostro, fragile come comunità nazionale, impoverito economicamente dalla crisi e dalla pandemia, con un apparato istituzionale e burocratico deboli, alla ricerca di soluzioni facili, la suggestione di affidarsi un uomo della Provvidenza, ad un uomo del fare che riduce la democrazia in cambio di sicurezza e rapidità decisionale, potrebbe rivelarsi dannosa se non pericolosa per il nostro sistema delle libertà (la Polonia e l’Ungheria di oggi non sono poi così lontane).
Concludendo questa provocazione, il localismo che disunisce la nazione non si supera con il recupero di poteri dalle regioni verso il centro (sebbene il riparto di competenza attuali necessiti in ogni caso di una sua rivisitazione e razionalizzazione, a meno di non lasciare tutto il peso delle definizione delle competenze alla sola Corte Costituzionale, e quindi all’accettazione di una conflittualità permanente Stato – regioni), ma con il recupero al centro di una diversa espressione della sovranità popolare mediante un Presidente eletto dai cittadini che sia, in quanto garante dell’unità del paese, anche titolare di poteri di governo.
Il tema non è quindi quello di un governo che sia espressione diretta della maggioranza elettorale, ma di una rilegittimazione della Repubblica come progetto dell’unità della nazione.
A 75 anni dalla caduta del Fascismo non sembra troppo presto scrollarsi di dosso la sindrome dell’uomo forte al comando, ma di affrontare laicamente il tema della razionalizzazione del potere e dell’efficacia dell’azione decisionale in regime democratico.