L’estate del 1943 fu decisiva per la storia del nostro Paese alla luce della disastrosa situazione militare che minava la saldezza del regime fascista, il quale il 10 luglio , dopo ripetute sconfitte che avevano sancito l’espulsione delle truppe dell’Asse dal territorio africano, aveva dovuto subire l’onta dell’invasione del territorio nazionale da parte degli Alleati, che sbarcarono in Sicilia e da lì iniziarono a risalire la Penisola, portando così la guerra sul continente europeo.
Del resto, che la guerra andasse male per le nostre armi e per quelle tedesche era chiaro da tempo, e ciò induceva le forze politiche e sociali ostili al fascismo, o divenute tali negli ultimi anni, ad interrogarsi su quello che sarebbe accaduto dopo.
Mentre le forze politiche di sinistra – comunisti, socialisti, il neonato Partito d’Azione…- stavano già definendo la loro linea di condotta cospirativa, i cattolici andavano riorganizzandosi con molta difficoltà, non solo per sfuggire alle attenzioni dell’OVRA, ma anche per una certa ritrosia nei confronti della politica, soprattutto da parte delle giovani generazioni. Alcide De Gasperi ed altre persone provenienti dall’esperienza del Partito popolare riannodarono pazientemente le fila anche con le generazioni più giovani, in particolare con gli intellettuali gravitanti intorno all’Azione cattolica e all’Università cattolica di Milano, grazie anche al sagace appoggio da parte del Sostituto della Segreteria di Stato mons. Giovanni Battista Montini. Il 19 marzo 1943, nella casa romana di Giuseppe Spataro, De Gasperi illustrò le “Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”, e quella data venne intesa come l’atto fondativo del nuovo partito.
In questo clima venne a maturazione l’ipotesi che era stata affacciata nel corso degli annuali convegni della Sezione Laureati dell’Azione cattolica (ed in discussioni più ristrette), cioè la a redazione di un testo di “cultura sociale” a cura della sezione Laureati stessa, della Presidenza centrale dell’Azione Cattolica e della Direzione dell’Istituto Cattolico di Attività Sociali (ICAS).
Il 15 giugno 1943 Vittorino Veronese (segretario generale dei Laureati cattolici e Direttore dell’ICAS), inviava ad una sessantina di studiosi una lettera in cui li invitava, in forma riservata, a partecipare ad un convegno che intendeva essere “una risposta all’invito pontificio rivolto agli studiosi di interessarsi con spirito di comprensione cristiana ai problemi sociali ed economici”. Ad ognuno dei partecipanti veniva richiesto di elaborare, in base alla propria disciplina di competenza, un breve contributo scritto; il convegno si sarebbe svolto a Camaldoli, nel Cenobio dei Padri Camaldolesi, dal 18 al 24 luglio.
A conclusione dei lavori – che si interruppero anzitempo per il precipitare della situazione bellica e politica – vennero approvati 76 “enunciati”, redatti in termini sintetici, corredati da numerosi riferimenti ai documenti pontifici (sia alle encicliche sociali e ai documenti di critica ai regimi totalitari di Pio XI sia ai Radiomessaggi di Pio XII) e alla dottrina tomista.
La redazione definitiva del testo, fra il settembre del 1943 e il maggio del 1944, venne coordinata da Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno, e ad essa contribuirono, in varia misura, alcuni altri intellettuali cattolici fra cui il massimo filosofo del diritto italiano del XX secolo, Giuseppe Capograssi, i più giovani ex Presidenti della FUCI Aldo Moro e Giulio Andreotti, Paolo Emilio Taviani, Pasquale Saracenop, Ezio Vanoni, Mario Ferrari Aggradi, Vittore Branca, Giorgio La Pira, Giuseppe Medici….
Nacque così il famoso “Codice di Camaldoli”, tante volte citato e poco studiato, che anche oggi, riletto criticamente a quasi ottant’anni di distanza, può essere un utile sussidio alla riflessione sulla presenza politica e sociale dei credenti in una fase complessa che presenta alcuni tratti di somiglianza con il periodo bellico in cui quel testo venne redatto.
Particolarmente interessante è l’art.3 del Codice allorché enuncia “che origine e scopo della società è unicamente la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento dell’uomo” ed aggiunge più innanzi “che rispettare negli altri la eguale dignità dell’uomo significa obbedire alla parola dell’Apostolo ‘fiat aequalitas’, sentire che tutti gli altri uomini qualunque sia la loro condizione sono eguali, aventi la stessa natura, capaci delle stesse virtù, chiamati allo stesso destino, destinati alla stessa salvezza” .
Viene poi precisato il significato reale di questa eguaglianza: “amare gli altri in modo da fare ognuno di essi uguale a noi, cercando per quanto in noi di procurare agli altri gli aiuti perché le prove della vita possano essere da ognuno affrontate con proporzionalità di mezzi”.
Passa quindi la concezione di una società come espressione e dipanamento della pienezza della vita (dell’esperienza) umana, in quanto “la vita della società è continuamente ed essenzialmente subordinata al supremo fine e destino dell’individuo di cui essa non è in sostanza che la esplicazione, la graduale e ordinata realizzazione ed il banco di prova” .
Mondo sociale, carità, autorità: i concetti fissati dal Codice portano a delineare un modello di organizzazione della società e dello Stato che va oltre la fase della dittatura non considerandola solo una parentesi, un’inesplicabile “malattia dello spirito”, ma come un momento importante nella storia dell’umanità che va compreso nelle sue dinamiche per meglio rovesciarlo.
Sintomatica è quindi la concezione dello Stato esposta nel paragrafo ad esso dedicato: dall’attività delle forze sociali nascono “realtà di gruppi e di istituzioni sociali nei cui riguardi nasce il duplice problema: a) di assicurare le condizioni generali perché possano svolgersi in piena libertà e secondo le proprie leggi per la realizzazione dei propri fini umani e sociali; b) di creare tra di loro un’armonia. Per realizzare questi due scopi si dà vita ad un modo di organizzazione di tutte le forze sociali – individui, famiglie, gruppi ed istituzioni – che si chiama lo Stato”.
In sostanza, viene rovesciata la piramide su cui si basava il potere dei totalitarismi: al vertice della politica è e deve esserci non lo Stato ma la persona vivente, che si organizza nei corpi sociali i quali a loro volta costituiscono la comunità più ampia che è lo Stato.
Circa la vita economica dello Stato, dopo aver affermato che “Per ordinare la vita economica è necessario che si aggiunga alla legge della giustizia la legge della carità“, il codice elenca otto principi morali cui si deve informare l’attività economica:
- la dignità della persona umana, la quale esige una bene ordinata libertà del singolo anche in campo economico;
- l’eguaglianza dei diritti di carattere personale, nonostante le profonde differenze individuali, provenienti dal diverso grado di intelligenza, di abilità, di forze fisiche, ecc.;
- la solidarietà, cioè il dovere della collaborazione anche nel campo economico per il raggiungimento del fine comune della società;
- la destinazione primaria dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini;
- la possibilità di appropriazione nei diversi modi legittimi fra i quali è preminente il lavoro;
- il libero commercio dei beni nel rispetto della giustizia commutativa:
- il rispetto delle esigenze della giustizia commutativa nella remunerazione del lavoro;
- il rispetto dell’esigenza della giustizia distributiva e legale nell’intervento dello Stato.
Sul dovere di solidarietà, il Codice prescrive che “Finché nella società ci siano dei membri che mancano del necessario, è dovere fondamentale della società provvedere, sia con la carità privata, sia con le istituzioni di carità private, sia con altri mezzi, compresa la limitazione della proprietà dei beni non necessari, nella misura occorrente a provvedere al bisogno degli indigenti“.
E sul punto della distribuzione patrimoniale sancisce che “Un buon sistema economico deve evitare l’arricchimento eccessivo che rechi danno a un’equa distribuzione; e in ogni caso deve impedire che attraverso il controllo di pochi su concentramenti di ricchezza, si verifichi lo strapotere di piccoli gruppi sull’economia”
In sostanza, dal quadro definito a Camaldoli emergeva l’architettura di uno Stato democratico che metteva al suo centro non la Nazione, la Razza , la Classe o il Capitale ma la persona umana con la sua insopprimibile dignità, le sue aspettative, i suoi bisogni ed insieme la sua finitezza.
Avendo poi molti dei partecipanti alla stesura del testo assunto fin da subito ruoli decisivi nella gestione del nuovo Stato repubblicano e nella stesura della sua Costituzione, si può ben dire che quel documento abbia influito, e non poco, a definire i valori fondamentali della democrazia repubblicana e le linee di attuazione di tali valori in precisi progetti di riforma.
In questi giorni si terrà un importante convegno di studi sul Codice organizzato dalla CEI proprio a Camaldoli, con una prolusione del card. Zuppi alla presenza del Presidente Sergio Mattarella, che si potrebbe definire l’ultimo epigono della tradizione del cattolicesimo politico che dall’evento di ottant’anni fa trasse nuova linfa.
Forse da lì, senza improbabili nostalgismi, si potrebbe trarre l’occasione per una riflessione matura sul contributo che anche oggi i credenti in quanto tali possono dare al dibattito politico e sociale del nostro Paese, senza ridursi agli slogan e alle frasi fatte.