In amplissimi settori della classe dirigente italiana, in quell’estate del 1943, era venuta meno ogni fiducia nei confronti di Mussolini e del fascismo: Monarchia, Chiesa, Forze armate, finanza ed industria, che negli anni avevano trovato un “modus vivendi” con il Regime dovevano prendere atto che la conduzione della guerra era stata disastrosa e che l’alleanza con il Terzo Reich era ormai una palla al piede per il nostro Paese. Questo soprattutto alla luce della Conferenza di Casablanca, in cui Churchill e Roosevelt avevano chiarito che gli Alleati non avrebbero accettato altro che la resa incondizionata delle forze dell’Asse e la demolizione dei sistemi dittatoriali di cui erano espressione.
Si rendeva quindi necessario, a maggior ragione all’indomani dello sbarco angloamericano in Sicilia, un rapido sganciamento dell’Italia da una guerra disastrosa, che passava di necessità attraverso l’allontanamento di Mussolini dal governo. Ma qui subentravano alcuni timori paralizzanti: in primo luogo la possibilità di una reazione da parte del duce e delle forze armate del fascismo, a partire dalla Milizia, cui ovviamente i Tedeschi avrebbero dato manforte. La seconda era anche la paura del dopo, di quello cioè che avrebbe potuto accadere in un Paese ormai esasperato se fosse venuta meno l’infrastruttura dello Stato totalitario, fermo restando che – in quella che ormai era una guerra ideologica – le Potenze alleate avrebbero richiesto il ripristino della democrazia, il che significava il ritorno dei partiti politici, compresi quelli di sinistra.
Si capisce allora che fervessero le ipotesi più fantasiose ed assurde circa la possibilità di uscire dalla guerra con il consenso della Germania, ovvero di permettere a Mussolini di rimanere al potere cambiando però linea politica ovvero di restaurare la democrazia ma in forma attenuata, escludendone socialisti e comunisti: i diari di quei giorni e la memorialistica ne sono pieni.
Del resto, Mussolini appariva ormai completamente abulico, e nella conferenza con Hitler svoltasi il 19 luglio a Feltre (l’ultima in cui i due dittatori, almeno formalmente, trattarono da pari a pari) venne meno all’impegno preso con il Capo di Stato maggiore generale Vittorio Ambrosio di chiarire al Fuhrer le condizioni disastrose dell’esercito italiano e la necessità di trovare una soluzione politica alla guerra. L’incapacità del duce di far riscontro a tali sollecitazioni convinse definitivamente l’ambiente militare -che rimaneva essenzialmente più fedele alla Monarchia che al Regime- dell’impossibilità di procedere oltre sotto la guida di Mussolini. Per colmo di sventura, durante la conferenza giunse la notizia del primo, pesante bombardamento alleato su Roma, in particolare sul quartiere di San Lorenzo, che ebbe un effetto psicologico devastante sull’opinione pubblica.
Il re Vittorio Emanuele III, che fino ad allora aveva tergiversato e si era chiuso in un silenzio implacabile davanti a tutte le sollecitazioni a fare qualcosa per mettere Mussolini di fronte alle sue responsabilità o addirittura silurarlo, adducendo motivazioni costituzionali (come se il fascismo fosse un ordinario regime parlamentare) , si decise a muoversi, predisponendo con i suoi collaboratori più fidati un piano per dimissionare Mussolini e sostituirlo col maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, già Capo di Stato maggiore e a lungo legato al fascismo, dimessosi polemicamente nel dicembre 1940 a causa della disastrosa campagna di Grecia. Nello stesso tempo, il piano del re prevedeva la neutralizzazione dell’apparato del Partito fascista e la continuazione temporanea della guerra al fianco dei Tedeschi per impedire la reazione di Hitler mentre segretamente si sarebbero dovuti aprire negoziati con gli angloamericani.
Parallelamente all’iniziativa regia – e senza che fra le due vi fosse un reale collegamento- anche all’interno della dirigenza fascista si faceva largo l’ipotesi di un accantonamento di Mussolini, per quanto tale prospettiva apparisse impensabile a chi aveva finito per credere alla leggenda dell’infallibilità del duce. Lo smarrimento suscitato dall’irruzione del nemico sul territorio nazionale aveva provocato il panico, di fronte a cui Carlo Scorza, Segretario del Partito da pochi mesi, aveva reagito chiedendo ai maggiori gerarchi di andare a tenere conferenze nelle principali città d’Italia per galvanizzare la popolazione. I rifiuti e le perplessità di molti degli interpellati causarono un teso confronto con Mussolini, al termine del quale il dittatore decise di convocare per la sera di sabato 24 luglio a Palazzo Venezia il Gran Consiglio del Fascismo, il massimo organo del partito che, per volontà di Mussolini ,era anche diventato organo dello Stato sia pure in una forma ibrida ed anomala (tutte le sedute finivano con un voto all’unanimità, spesso senza un simulacro di discussione).
Maturò così l’iniziativa di Dino Grandi, già Ministro degli Esteri e ambasciatore a Londra, e all’epoca Presidente della Camera, di proporre un ordine del giorno che prendesse atto della gravità della situazione militare e chiamasse in causa la Monarchia invitandola ad assumere la guida degli affari militari che fin ad allora il duce aveva avocato a sé. Il non detto era che, in una situazione tanto disperata, era impossibile per il Sovrano gestire gli affari militari senza avere piena autorità anche su quelli politici, e ciò comportava la revoca di Mussolini dalla guida del Governo.
Quello era l’intento di Grandi e dei più determinati fra coloro che lo affiancarono, come Luigi Federzoni, Giuseppe Bottai e persino Galeazzo Ciano, genero ed ex Ministro degli Esteri del duce, all’epoca ambasciatore presso la Santa sede. Alcuni fra coloro che sottoscrissero il documento di Grandi, che fu più volte corretto e limato, avevano intuito il disegno politico di fondo: altri invece credettero che veramente si trattasse solo di togliere al duce il controllo degli affari militari, convincendolo anche a rinunciare ai numerosi interim ministeriali di cui si era caricato.
E’ da dire che non si trattò affatto di un complotto: a Mussolini era noto il testo del documento, che peraltro Grandi stesso gli aveva illustrato, e la raccolta delle firme avvenne in modo quasi plateale nell’ufficio di Grandi a Montecitorio e ancora durante la seduta del Gran Consiglio.
Del resto, la stessa condotta del duce durante la seduta del 24 luglio desta numerose perplessità: la sua relazione introduttiva era stata mediocre e reticente, e le sue proposte per l’avvenire alquanto fumose, al di là della dichiarata volontà di non rompere l’alleanza con la Germania. Egli aveva ipotizzato, in colloqui ristretti coi suoi collaboratori, di chiedere ad Hitler di concludere la pace con l’Unione sovietica per concentrarsi sul nemico angloamericano, ovvero di consentire uno sganciamento dell’Italia per neutralizzare lo scacchiere mediterraneo: nei fatti, non osò mai affacciare tali ipotesi nei suoi colloqui col Fuhrer di cui era ormai succube anche psicologicamente.
L’andamento della seduta, che durò fino a notte tarda, fu nervoso e discontinuo, anche perché non tutti i presenti avevano informazioni precise sulla situazione e la relazione di Mussolini non aveva chiarito le idee. Oltre all’ordine del giorno di Grandi ne venne presentato uno da Scorza, a nome del Partito, che dopo aver auspicato con toni retorici la resistenza ad oltranza auspicava generiche “riforme” nel governo e nell’esercito, e un altro ancora da Roberto Farinacci, uomo di fiducia dei Tedeschi, che richiamava al rispetto dell’alleanza.
Mussolini aveva fatto intendere la sua contrarietà all’odg Grandi, ma non aveva né sospeso la riunione né impedito la votazione, che anzi partì proprio dal testo del Presidente della Camera, che venne approvato con 19 voti favorevoli, 7 contrari e un’astensione, mentre Farinacci dichiarava di votare solo il suo odg.
Alle 3 del mattino di domenica 25 luglio la seduta venne chiusa. Alle 17 di quello stesso giorno Mussolini si recò a Villa Savoia, residenza privata del re, il quale gli disse che, considerata la grave situazione militare, e il nuovo dato politico del voto del Gran Consiglio, era opportuno che il duce lasciasse la guida del Governo, che sarebbe appunto stata affidata a Badoglio. Dopodiché, una pattuglia di Carabinieri prese in consegna Mussolini e lo portò in una caserma da cui sarebbe stato trasferito in varie località di confino per i successivi quarantacinque giorni.
I timori del Sovrano e di Badoglio circa possibili reazioni fasciste si dileguarono ben presto: il Partito e la Milizia non reagirono in alcun modo, e il Segretario del Partito Scorza nel giro di 48 ore, dopo aver distrutto alcuni documenti compromettenti, lasciò l’intera struttura del PNF nelle mani del nuovo Governo. Parallelamente, il Capo di Stato maggiore della Milizia Enzo Galbiati passò senza alcuna remora le consegne al generale Quirino Armellini, che dal nuovo Governo aveva avuto il mandato di ripulire politicamente quella forza armata ritenuta infida e di integrarla nelle Forza armate regolari. Mussolini stesso scrisse una lettera di congratulazioni a Badoglio promettendogli collaborazione.
L’unica reazione di rilievo, al di là dello scoppio di giubilo in molti settori della popolazione, fu il suicidio di Manlio Morgagni, giornalista, amico di vecchia data di Mussolini e presidente dell’Agenzia di stampa ufficiosa “Stefani”: non certo una figura di primo piano.
Dall’oggi al domani il fascismo sembrò sparito, mentre i partiti antifascisti riemergevano dalla clandestinità, sia pure in un regime ibrido in cui le leggi della dittatura non erano state revocate e la guerra a fianco della Germania continuava (ma il primo obiettivo del nuovo Governo, come si è visto, era quello di giungere quanto prima ad un armistizio con gli Alleati).
La rapida caduta delle strutture del Regime fece capire quanto esso fosse già ormai morto nel cuore della gran parte della popolazione: non per merito delle sparute truppe degli antifascisti (su questo non si facevano soverchie illusioni i due grandi leader della futura Italia repubblicana, De Gasperi e Togliatti, esule il primo in Vaticano ed il secondo in URSS), ma per aver fallito tutte le sue promesse di futuri abbacinanti destini imperiali, che nel giro di pochi anni erano diventati un presente di bombardamenti, di lutti in famiglia, di fame e di miseria, nel quadro di una guerra senza prospettive a fianco di un alleato poco amato.
Ciò non significava, beninteso, che la cattiva educazione seminata in vent’anni di capillare indottrinamento propagandistico fosse venuta meno, e si sarebbe visto successivamente, ma in quel momento vi fu un sentimento generale di liberazione che servì peraltro ad amplissimi settori della classe dirigente per occultare o far dimenticare le proprie complicità con il Regime.
Si apriva una breve stagione ambigua, che avrebbe fatto da preludio ad altre tragedie.