In Francia adesso sono diventati tutti liberisti, cosa che, fino a poco tempo fa, a destra come a sinistra era quasi considerato un insulto. A sinistra, va riconosciuto, ha fatto scuola anche il presidente Hollande che, con il suo liberal-socialismo, sta tentando di portare il suo partito fuori dalle ormai logore ricette stataliste. Il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron è il capofila di questo nuovo corso, cui non si sottrae ovviamente il premier Manuel Valls. Muovono infatti in questa direzione molti dei provvedimenti presi nell’ultimo anno e mezzo, dalla liberalizzazione del commercio alla riforma del lavoro, approvata nei giorni scorsi solo grazie al voto di fiducia. Il testo, peraltro, è stato ampiamente rimaneggiato poiché la prima versione uscita dagli uffici del ministro del Lavoro, Myriam El Khomri, era talmente sbilanciata a favore delle imprese da suscitare perplessità persino in qualche esponente del gollismo sociale.
Di fronte alle indubbie incursioni socialiste sul terreno liberale, la destra non poteva certamente essere da meno. Tanto più che, trovandosi all’opposizione, può permettersi di parlare a ruota libera, senza poi – almeno per ora – esser obbligata a sobbarcarsi l’onere dell’effettiva realizzazione di quanto proposto.
E così, uno dopo l’altro, i quattro candidati alle primarie interne repubblicane, Nicolas Sarkozy, Alain Juppé, François Fillon e Bruno Le Maire, fanno a gara nell’avanzare misure sempre più ardite sulla via della liberalizzazione economica.
Ne scaturisce una raffica di proposte, assortite da cifre talvolta poco verificabili, spesso gettate lì più per questioni di lotta interna che per fornire ai cittadini un progetto politico davvero sensato. E allora si parla di abolire le 35 ore, di sopprimere l’imposta patrimoniale, di ampliare le possibilità di licenziamento per le imprese, di estendere l’applicazione dei contratti a termine. Immancabilmente anche le pensioni finiscono nel mirino, con l’idea di innalzare l’età pensionabile a 65, 67 se non addirittura a 70 anni. Opzioni, per carità, pienamente legittime ma che vengono servite senza gli approfondimenti che sarebbero necessari e senza curarsi della loro reale fattibilità.
Il bello (si fa per dire) è che ad alimentare questa corsa al rialzo sono, tranne Le Maire che non ha avuto mai esperienza di governo, uomini politici che hanno guidato il Paese e che dunque sono ben in grado di valutare l’effettiva praticabilità di quanto affermato.
Va poi evidenziato che tanto Fillon e Juppé, come primi ministri, quanto Sarkozy come presidente della Repubblica, mai pensarono di adottare misure tanto drastiche. Non a caso, proprio Sarkozy, forse più conscio delle difficoltà rispetto ai rivali, è il più cauto in questa escalation liberista. D’altronde quando era all’Eliseo tenne in piedi sia la patrimoniale sia le 35 ore, muovendosi più nel solco di Colbert che non in quello della Thatcher.
In ogni caso, al di là della recente conversione neoliberista di uomini politici che per tutta la vita sono stati ben distanti da questa ideologia, c’è da chiedersi se una svolta del genere serva realmente alla Francia. Diciamo subito che qualche aggiustamento va fatto. Le 35 ore sono forse un lusso che l’economia francese oggi non può permettersi, in presenza di un’Europa che ha generalmente altre regole. Si discuta pure dell’imposta patrimoniale, depurando finalmente la faccenda da tutti gli aspetti ideologici e valutandone, in concreto, la reale efficacia tributaria.
Nel complesso è però illusorio credere che basti comprimere il costo del lavoro ed abbassare le tutele ai lavoratori per recuperare competitività. La realtà è che occorre invece valorizzare il lavoro, puntare sulla formazione, investire nella ricerca e nell’innovazione. Serve un ruolo pubblico a supportare gli investimenti privati, offrendo alle imprese un sicuro quadro di riferimento sui settori strategici sui quali puntare. Ancora più ingannevole è poi pensare di risolvere le grandi questioni della crescita solo su scala nazionale, bisogna piuttosto procedere verso un più efficiente mercato unico europeo. Lavoro, fisco, credito, questi i settori da armonizzare per recuperare margini di competitività.
La “via nazionale” è fallace. Può forse far vincere le primarie, non certo dare credibili risposte alla crescita del Paese.