L’opera giovanile di Verdi inaugura la stagione con un allestimento geniale, la splendida direzione di Riccardo Chailly e Anna Netrebko come protagonista d’eccezione nei panni della Pulzella d’Orléans.
Alcune impressioni sui risultati artistici raggiunti dal 7 dicembre scaligero più blindato della storia. Quello che ha visto appunto il Teatro alla Scala aprire la propria stagione, come forse mai era avvenuto in passato in maniera così evidente, sotto l’alta tensione dell’incubo attentati, ma senza rinunciare alla solita mondanità di rito.
Ma è stato anche il 7 dicembre della scelta coraggiosa di aprire la stagione con un’opera verdiana dei cosiddetti “anni di galera” fra le più bistrattate, che vide la luce nel 1845 proprio sulle scene scaligere: Giovanna d’Arco. Scelta coraggiosa perché l’opera, ispirata al dramma Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller, ha un libretto di Temistocle Solera assai debole, la cui drammaturgia non aiutò certo il giovane Giuseppe Verdi nel comporre una musica che appare un passo indietro rispetto alla singolarità compositiva dei precedenti successi ottenuti con Nabucco e I Lombardi alla prima Crociata alla Scala, e poi con Ernani a Venezia e I due Foscari a Roma.
Giovanna d’Arco non è un capolavoro, e se non fosse per alcune grandi interpreti interessate a non far uscire del tutto l’opera dal repertorio, perché attirate delle molte possibilità di emergere offerte dal ruolo della protagonista (ci riferiamo, nel Novecento, soprattutto a Renata Tebaldi, Montserrat Caballé, Katia Ricciarelli, Mariella Devia e, oggi, ad Anna Netrebko), avrebbe continuato a non essere compresa e ad essere considerata come il prodotto di un Verdi minore. A far cambiare il corso di convinzioni spesso scontate, superficialmente legate a cliché critici tramandati da certa musicologia, ha provveduto la magnifica edizione di Giovanna d’Arco appena vista alla Scala.
I motivi di soddisfazione, all’ascolto come alla visione dello spettacolo, sono molteplici, tali da giustificare la saggia scelta di puntare su un titolo così insolito e comunque legato alla storia della Scala. Rodolfo Celletti, insigne studioso di storia della vocalità, annotava anni fa che quest’opera non è, salvo naturalmente qualche passo, focosa, bellicosa e sanguigna come lo sono certi titoli del Verdi giovanile e come il soggetto dell’opera stessa darebbe a pensare. “Carlo VII, Giacomo e Giovanna, – scriveva Celletti – pur nelle strane parvenze loro imposte dal libretto, sono tre figure dolenti, allucinate, trasognate, che s’aggirano in un mondo di visioni e di incubi, preda di un misticismo elementare, brado, ma anche ambiguo e insidioso”.
Per non cadere nei molti tranelli del debole libretto di Solera, i geniali autori del nuovo spettacolo scaligero, i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier, hanno pensato ad un terzo piano drammaturgico che si aggiunge alla duplice visione di una Giovanna d’Arco divisa fra la chiamata per volere divino all’eroico compito di salvare, in veste di vergine guerriera, il proprio popolo dall’invasore straniero e le pulsioni che la vogliono donna capace di innamorarsi e di cedere alle tentazioni della carne che la fanno rinunciare, per amore, alla verginità. Gli autori dell’allestimento hanno così pensato ad una protagonista che non è condannata al rogo, né muore ferita in battaglia ma vive il dramma privato della sua condizione di donna che, in costante oscillazione fra depressione e follia, si consuma per sfinimento emotivo, per non essere riuscita ad affermare la propria personalità di donna a causa del peso dei condizionamenti che la opprimono.
Il dramma, da pubblico, diviene privata condizione psicanalitica, tormento quasi onirico di un subconscio ossessionato, diviso fra missione eroica e pulsione amorosa intesa come repressione sessuale. Giovanna vede tutti coloro che la circondano come lontano da lei, con il distacco di una nevrosi che nasce fin da subito dalla visione della sua stanza da letto, dalla quale prende le mosse il racconto del suo sogno di gloria e di amore irrealizzato. Le stesse voci esterne, quelle del popolo e quelle delle entità infernali e celesti sembrano in questo spettacolo potenziarsi sotto la lente di ingrandimento psicanalitica messa in essere dai registi, che vedono l’eroina distaccata da tutti: dal re Carlo VII, che appare come una statua tutta d’oro e per il quale l’eroina prova attrazione pur risultando per lei una figura astratta, e da Giacomo, il padre che la accusa, per il suo agire, di essere vittima dell’operato del demonio. Giovanna è dunque sola ed è come se avesse, nel suo subconscio onirico, l’unica via di uscita dinanzi a chi non la comprende tramite l’attaccamento ad una fede fatta di simboli religiosi feticistici.
Certo tale soluzione registica ha componenti arbitrarie al libretto, ma appare di forza e verità drammatica così illuminanti da migliorare ciò che Solera non ottiene dai suoi deboli versi, donando loro quella coerenza che essi non possiedono.
Per il resto l’impianto scenico di Christian Fenouillat e i costumi di Agostino Cavalca regalano momenti di suggestione visiva nell’uso di proiezioni video ideati da Etienne Guiol, con richiami pittorici alle tele di Paolo Uccello e con l’immagine di una cattedrale di Reims che si staglia gigantesca nel quadro della cerimonia di incoronazione del III atto. Tutto si sviluppa, con effetti scenici di grande effetto, dalle pareti di quella grigia stanza che durante la sinfonia d’apertura vede la protagonista sul proprio letto, in preda al suo delirio.
Chi comprende come da non sottovalutare siano le qualità musicali di questa partitura è anche Riccardo Chailly, direttore musicale della Scala al suo primo 7 dicembre all’insegna di un Verdi giovanile dalle tinte liriche spesso soavi e levigate. Trovare il colore giusto per quest’opera significa comprenderla e valorizzarla. Così ha fatto Chailly, alla testa di un Orchestra e di un Coro, quest’ultimo superbamente preparato da Bruno Casoni, che suona con morbidezza e calore avvolgenti, trovando il giusto equilibrio fra ascendenze liriche di estrazione ancora donizettiane e un respiro verdiano di singolare calore melodico.
Qualità direttoriali che vengono messe a frutto dalla protagonista, una Anna Netrebko che già cantò a Salisburgo quest’opera in forma di concerto ed oggi, affrontandola sulla scena, e per di più in versione integrale, mette a segno una prestazione maiuscola per bellezza di timbro e assoluto controllo del mezzo vocale: una vera colata di suono denso ed insieme luminoso. Della sua Giovanna d’Arco non si sa se ammirare di più la morbida delicatezza dei cantabili (vedasi il nostalgico involo donato all’aria “O fatidica foresta”), o l’impeto che dona agli accenti di “Son guerriera che a gloria t’invita”, fino ad un commossa scena finale.
In stato vocale di grazia anche Francesco Meli, Carlo VII, che da bravo tenore di estrazione belcantistica, dotato di una voce di rara bellezza, si apprezza per la linea di canto cristallina e parimenti soffice, esaltando la bella frase melodica del duetto con Giovanna “È puro l’aere, limpido il cielo” e donando il giusto tono patetico alla romanza “Quale più fido amico”, con varietà di fraseggio e fascino espressivo da fuoriclasse. Devid Cecconi, chiamato nei panni di Giacomo a sostituire l’indisposto Carlos Alvarez, ha fornito una prova altamente professionale, sfoggiando voce baritonale forse non sempre omogenea ma di autentico spessore e accento verdiani.
Eccellenti anche Dmitry Beloselskiy, Talbot, e Michele Mauro, Delil, che completano il cast di questa Giovanna d’Arco, accolta dal pubblico della serata di gala con applausi trionfali. Sfida dunque vinta per la Scala, e a pieni voti.