Il governo delle città, non costituisce una mera modalità organizzativa e distributiva del potere sul territorio, esso è uno dei principi fondamentali del patto di libertà che la Costituzione ha sancito tra Istituzioni pubbliche e Società civile.
“Quando vai a visitare le città che ti appartengono, non pensare tra te: Sono padrone di tutte queste cose, tutte dipendono dal mio volere, su di esse posso fare ciò che voglio. Se vuoi avere pensieri degni di un principe, dì piuttosto a te stesso: Tutte queste cose sono state affidate a me, dunque devo adoperarmi a lasciarle migliori di come le abbia ricevute”. (Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano)
L’autonomia locale è una forma della libertà
Nel brano sopra riportato si sottolinea l’esistenza di un principio di libertà collettivo delle città, che non appartengono come proprietà al Principe, ma gli sono state affidate in cura.
Viene dunque enunciato il principio generale del potere come bene non proprietario di un Principe, ma come strumento di servizio orientato alla tutela e alla promozione della persona umana: lasciare le città migliori di come sono state ricevute, che, peraltro, troviamo scolpito nel Magnificat:
“ha rovesciato i potenti dai troni
ha innalzato gli umili;”
ha ricolmato di beni gli affamati
ha rimandato i ricchi a mai vuote.”
Il governo delle città, ma più in generale delle comunità locali rette da istituzioni rappresentative, nel nostro ordinamento costituzionale non costituisce una mera modalità organizzativa e distributiva del potere sul territorio, esso è uno dei principi fondamentali del patto di libertà che la Costituzione ha sancito tra Istituzioni pubbliche e Società civile.
I principi fondamentali della Costituzione sono tutti espressione del pensiero giusnaturalista che antepone il diritto naturale a quello positivo discendente dalla legge, quale fondamento delle libertà inalienabili dell’uomo (Ugo Grozio).
Con essi si afferma che esiste una sfera intangibile di diritti fondamentali non disponibili e comunque non derivati dallo Stato, ma a questi anteposti e derivati direttamente dalla persona.
Questi diritti sono dunque riconosciuti e tutelati dallo Stato, in quanto contenuto della intangibilità della persona umana ed espressione della sua libertà.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti fondamentali delle persone come singole e nelle loro formazioni sociali (art. 2), riconosce il diritto al lavoro per la promozione della persona (art. 4), riconosce e promuove le autonomie locali (art. 5).
L’art. 5 nel riconoscere l’autonomia locale non prende atto della preesistenza allo Stato degli enti territoriali locali che, infatti, non sono enti sovrani e sono determinati da quest’ultimo, bensì della preesistenza delle comunità locali, quali fenomeni originari e naturali attraverso cui si articola la comunità nazionale “una e indivisibile (art. 5, Cost.), alla forma politica dello Stato (la Repubblica).
L’ordinamento costituzionale riconosce il fenomeno delle comunità locali e, prendendone atto, gli dà forma politica con istituzioni rappresentative e democratiche (l’Italia repubblica democratica e la sovranità che appartiene al popolo nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione, art. 1 Cost.).
Il fenomeno autonomistico è sociale, in quanto tale è soggetto alle dinamiche dei mutamenti temporali, di costume, economici, culturali, anche delle culture politiche, e la norma costituzionale adegua le forme di governo locale ai cambiamenti.
Nel 2011 con la riforma del Titolo V della Costituzione l’art. 114 ha affermato che la Repubblica è costituita oltre che dallo Stato, dalle Regioni, dai Comuni, dalle Province, anche e per la prima volta dalle Città metropolitane.
Con la riforma costituzionale ora in fase di approvazione scompare l’ente provincia a riprova che il principio autonomista non agisce sul piano del riconoscimento previo rispetto allo Stato dell’ente di governo locale, ma sul piano dell’affermazione della comunità locale che deve essere necessariamente autonoma rispetto allo Stato, perché questa autonomia rappresenta una forma di libertà delle persone, che viene proiettata nella dimensione della libertà politica, come libertà di comunità, libertà associativa e solidaristica.
La libertà della comunità, se ha un contenuto solidaristico interno, non può non porsi negli stessi termini nei confronti delle altre comunità locali, quindi ha anche un contenuto esterno, sino a quella nazionale, perciò il vincolo della Repubblica una e indivisibile (art. 5, Cost.) non è può essere letto come una limitazione della libertà delle comunità, bensì come l’adesione ad un comune progetto nazionale solidaristico inquadrato entro lo schema inclusivo dei valori costituzionali.
La vocazione della Costituzione repubblicana è quella di includere nell’alveo della cittadinanza politica (effettive possibilità di concorrere alle decisioni con metodo democratico) e sociale (effettive condizioni di vita libera e dignitosa: eguaglianza sostanziale) tutte le persone.
Il principio autonomista non è esaltazione di una identità che esclude le diversità, cioè il localismo, ma esattamente il suo opposto, perché esso è manifestazione del principio personalista, cardine dell’intero impianto costituzionale.
L’idea di persona nella Costituzione parte dall’assunto che l’uomo realizza pienamente se stesso solo in rapporto di solidarietà con gli altri, quindi implica che l’uomo viva una condizione di naturale socialità, che lo porta ad essere immerso e parte della comunità nella quale è attivo componente (N. Occhiocupo, Liberazione e promozione umana nella Costituzione, Giuffrè, Milano, 1988), in quanto in essa “svolge la sua personalità” (art. 2).
Nel pensiero politico dei cattolici democratici, a partire dal manifesto dei “Liberi e forti” di Don Sturzo, al Codice di Camaldoli, secondo il quale: “Lo Stato ha il compito di promuovere positivamente il bene comune; di svolgere cioè in profondità e ampiezza, quanto lo esige la contingenza storica, una multiforme azione nei vari settori della vita per indirizzare le attività umane, avvivarle, armonizzarle, gerarchizzarle; sicché individui, famiglie e gruppi intermedi trovino nell’ambiente sociale quanto necessario e conveniente per soddisfare ai bisogni del corpo e arricchire la propria spiritualità. (Rer. Nov. 26). Da ciò non deriva che spetti allo Stato di provvedere a tutto, dovendo tener conto dell’iniziativa privata in quanto strumento efficace per il bene comune”, la sfera istituzionale non esaurisce la sfera delle libertà comunitarie, ma le tutela e le promuove (art. 5).
Con ciò si legittima la dialettica Stato – Società, all’interno della quale i corpi intermedi non sono soltanto quelli nella società, ma anche quelli delle istituzioni locali, che dunque sono enti necessari per il governo delle comunità.
L’attualità del dibattito sulle autonomi locali
Nel dibattito sulle autonomie locali i temi emergenti hanno riguardato e riguardano i profili ordinamentali ed organizzativi dei livelli di governo con l’eliminazione delle province e la loro surrogazione con, per ora, indeterminati enti di vasta area, la costituzione delle città metropolitane, lo sviluppo delle forme associative obbligatorie tra i comuni.
A livello costituzionale la riforma in atto riguarda anche le autonomie con una rivisitazione delle competenze dello Stato e delle Regioni, attraverso il rafforzamento del primo e l’istituzione del Senato delle autonomie.
Pur non essendo questa la sede per un esame del testo costituzionale riformato, non si può non convenire sulla necessità di una riforma che chiarisca i confini di competenza tra Stato e Regione e che assegni ai poteri statuali le materie per le quali occorre che lo Stato sia in grado di affrontare con rapidità le grandi questioni poste ed avanzate dal fenomeno della globalizzazione.
Purtroppo il dibattito è andato prevalentemente incanalandosi in una censura diffusa sulla qualità della classe dirigente locale, che non ha mancato di dare di sé prova non esaltante sia professionale che per qualità morale.
Non solo, ma le difficoltà finanziarie e le conseguenti strette ai finanziamenti per gli enti locali, hanno accentuato nell’opinione pubblica un sentimento di diffuso malcontento e scetticismo, rispetto al quale la risposta della politica centrale è spesso stata deludente per non dire anche demagogica ed elitaria.
La qualità della produzione normativa per le autonomie locali della legge n. 56 del 2014 è veramente scadente. I suoi difetti sono particolarmente evidenti per la città metropolitana, immaginata come soggetto forte di governo per realtà forti e dinamiche, motori del Paese, si sta invece rivelando soggetto debole, ibrido, insicuro, con organi di governo non eletti dai cittadini e con il sindaco che è anche del comune capoluogo, con scarse risorse ed eguagliate nelle loro competenze alle province, che pure sono destinate a scomparire (in modo particolare questa parificazione al ribasso è evidente nella legislazione lombarda della lr 32/2015).
Demagogica ed elitaria è la previsione, secondo la quale i componenti degli organi di governo della città metropolitana e delle province debbono svolgere gratuitamente il loro mandato, come se l’assunzione di una responsabilità di governo importante sia una sorta di impegno di secondo livello, da svolgere in via residuale nel tempo lasciato agli impegni di consigliere comunale o di sindaco dei comuni dai quali provengono gli eletti nel consiglio metropolitano.
La scelta di rendere gratuito il mandato asseconda un’opinione pubblica stanca ed arrabbiata, invero spesso non a torto, verso la politica ed i suoi esponenti locali, e non nasconde una concezione della politica e dell’impegno politico oligarchico e, infine, antidemocratico, perché restringe la platea dei soggetti che possono impegnarsi in questi livelli di governo a coloro che ne hanno la possibilità economica, o che hanno uno status personale o professionale che permette di potersi impegnare.
E dire che della necessità di remunerare chi ricopriva incarichi pubblici se ne fece carico circa 400 anni prima di Cristo l’Atene di Pericle, dove fu prescritto che chi assolveva un incarico pubblico ricevesse dallo stato una indennità giornaliera per consentire l’esercizio delle magistrature anche a chi viveva del proprio lavoro.
La scarsità delle risorse finanziarie per gli enti locali, a cui non ha fatto contrappeso anche la riduzione dei loro compiti, ha spinto ad una legislazione che mira, opportunamente, al superamento del numero dei comuni in specie di quelli cosiddetti “polvere” per le ridotte dimensioni demografiche ed all’obbligo delle forme per la gestione associate di funzioni e servizi, la cui scala solo comunale non è idonea per qualità e costi a dare risposte efficaci alle domande dei cittadini.
Il recupero di efficienza ed il minor costo delle prestazioni e dei servizi è un parametro di qualità della democrazia, ma non può assurgere a principale ed egemone.
Il governo centrale, mediante la leva della finanza locale e con l’eliminazione dell’IMU sulla prima casa, ha accentuato il livello di controllo sugli enti locali e, di fatto, ne ha ridotto gli spazi di autodeterminazione.
Da un lato questa azione è benefica per la riduzione, se non per l’eliminazione degli sprechi, dall’altro però va svuotandosi il principio di autonomia politica a favore del principio di decentramento amministrativo, dove gli enti locali rischiano di essere uffici periferici dello Stato, ed anche delle Regioni, invece che enti di autogoverno.
Questa torsione a cui è sottoposto il principio autonomista rilancia, o dovrebbe rilanciare, il ruolo dell’associazionismo sociale e politico per la definizione di nuove regole di cittadinanza politica sul fronte dell’effettiva possibilità di concorrere e di partecipare con metodo democratico alla definizione delle scelte e sul fronte dell’elaborazione delle proposte politiche.
La democrazia va innervata con una forte presenza ed iniziativa dei corpi intermedi sociali e politici che si proiettano nella dimensione pubblica del bene comune attraverso le istituzioni che sono insieme forma della rappresentanza e strumento per il conseguimento degli obiettivi di una proposta e di un programma di governo.