Il cavaliere della rosa di Strauss al Teatro alla Scala

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Lo scorrere del tempo, che riflette lo sfiorire della giovinezza con  angolature malinconiche di inesausta poesia, è forse il vero protagonista di quel capolavoro assoluto che è Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa) di Richard Strauss. Quel tempo che trascorre lasciando sulle primavere della vita un velo di rimpianto colmo di contegno per un passato che più non tornerà, se non nel ricordo di vissute esperienze passionali.
Ne sa qualcosa La Marescialla, nella cui immagine aristocratica, toccata inesorabilmente dal fluire delle stagioni, si legge il manifesto di un’epoca, quella dell’Impero Asburgico che volge al tramonto e affida alla nostalgia le ultime istantanee di un tempo felice e irripetibile. Questo ed altro ancora è Il cavaliere della rosa, che Strauss compone affidandosi a ritmi di valzer, a raffinati echi mozartiani e a scene di sapore vivacissimo, che alternano all’estasi lirica il tono da commedia proprio alla migliore tradizione viennese.

Ecco perché il regista Harry Kupfer pensa di ambientare l’opera non nel Settecento di Maria Teresa, come vorrebbe il meraviglioso libretto di Hugo von Hofmannsthal, ma all’epoca in cui l’opera fu composta, nella Vienna del declinante ma ancora orgoglioso Impero Austro-Ungarico. Lo fa come meglio non si potrebbe, utilizzando il bianco e il nero di videoproiezioni raffiguranti giganteschi interni ed esterni di palazzi viennesi, di viali e di scorci nebbiosi del parco del Prater proiettati ad alta definizione, così nitidi da sembrare veri. Il tutto con un rigore figurativo che coniuga magistralmente l’antico al moderno, donando a questo spettacolo, già visto ed apprezzato l’estate scorsa al Festival di Salisburgo, il merito dell’eccellenza, anche per una regia teatralmente dinamicissima.

Ed è un vero peccato che al Teatro alla Scala non si sia fatto il pieno di pubblico con un allestimento segnalabile fra i più belli visti negli ultimi anni, grazie anche all’illuminata direzione d’orchestra di Zubin Mehta. Non è una novità che il celebre maestro indiano ami e conosca come pochi oggi la tradizione della musica viennese. Qui lo dimostra con una concertazione che ha il dono dell’equilibro, fresco e sorgivo, fra languidi abbandoni elegiaci e quell’ironia pungente e mai marcata con cui risolve le scene dell’opera in cui la comicità prende il sopravvento. Tutto è controllato, preciso, puro e bello perché naturale e mai artefatto. L’orchestra scaligera suona con una trasparenza e un calore sonori ammalianti, così che la magia si raggiunge in più punti, grazie anche ad una compagnia di canto ben assemblata ed affiatatissima, la medesima ascoltata a Salisburgo, ammirabile anche nel DVD che di questo spettacolo si è realizzato.

Krassimira Stoyanova, La Marescialla, non avrà nel gesto scenico l’involo nobiliare della gran dama, ma canta meravigliosamente; appare più consapevole della propria condizione di donna alla fine dei bei tempi passati che sensuale, più concreta che mollemente carezzevole, sempre cosciente, senza dignitosi e compiaciuti abbandoni, che le ultime notti d’amore con il suo giovane amante Octavian, vezzosamente chiamato Quinquin, vadano vissute come un dono, come omaggio alla sua ormai sfiorita ma fiera bellezza.
Non le è da meno l’Octavian di Sophie Koch, che più volte ha interpretato questo ruolo en travesti fino a  divenirne una specialista, oggi forse lievemente appannata sul piano vocale rispetto a passate prove, ma sempre impeccabile scenicamente. Originale la scelta, controcorrente ma azzeccata, di uscire dal cliché buffo, scontato e ripetitivo del Barone Ochs inteso come seduttore senile volgare e repellente, sempre sopra le righe, per affidarsi piuttosto ad un cantante, l’aitante e nerboruto Günther Groissböck, che dona al personaggio l’immagine del don giovanni pieno di ardenti pulsioni amorose.

Eccellenti tutti gli altri interpreti, con in primo piano la Sophie di Christiane Karg e il Faninal di Adrian Eröd, per uno spettacolo che si è alternato sul palcoscenico scaligero insieme all’altrettanto fortunata proposta del dittico di Maurice Ravel formato da L’heure espagnole e L’Enfant et les sortilèges, messo in scena nel geniale allestimento firmato da Laurent Pelly.

Fotografie Brescia e Amisano © Teatro alla Scala