
Il duplice nazionalismo
Noi europei abbiamo perso il ricordo di alcuni passaggi negativi del nostro passato che oggi il presente recupera e rilancia. Questo passato/presente si chiama nazionalpopulismo.
La storia europea è quella di strutture di potere che hanno costruito attorno a sé identità nazionali e organizzazione territoriali chiamate “Stato – Nazione” (C. Rovelli, Corsera, 31 luglio 2017).
Lo Stato – Nazione nella cultura politica occidentale è diventato con il tempo lo strumento di garanzia dei diritti dei cittadini, attraverso la ripartizione dei poteri, affinché il “potere controllasse il potere”, il riconoscimento delle libertà inviolabili dell’uomo, il principio di eguaglianza e di laicità e di democrazia (A. Campi, Il messaggero, 13 settembre 2018).
Il principio di sovranità da affermazione di un potere assoluto su un popolo e su un territorio è diventato potere del popolo sovrano che stabilisce le scelte di governo mediante il voto e il diritto di eleggere e di essere eletto.
L’Europa è stata anche il continente del nazionalismo che si è manifestato in una duplice concezione:
una concezione si è declinata con la cultura della nazione come entità democratica e ha sviluppato anch’essa una politica di potenza verso l’esterno (imperialismo), senza però intaccare le libertà e le prerogative dei cittadini;
l’altra ha esaltato l’identità della comunità nazionale, come entità chiusa e omogenea, avversaria della diversità, in competizione con le altre. Per difendere e affermare questa identità la sovranità è passata dal popolo allo Stato e le libertà democratiche sono state prima ridotte e poi eliminate. Lo Stato – Nazione da strumento della libertà è diventato lo strumento dell’oppressione.
In entrambe le concezioni il nazionalismo ha sempre sviluppato una politica diretta a sottomettere popoli e territori, perché si basa sull’idea della superiorità di una nazione e dei suoi interessi su tutte le altre.
Dopo due guerre mondiali nell’Europa occidentale ha prevalso il modello dello Stato democratico di diritto e fondato sulla tripartizione dei poteri. Nell’Europa orientale il comunismo si è sovrapposto, utilizzandolo, al nazionalismo identitario e anche razzista, sul quale si sono costruite le comunità nazionali: “Non avevamo più ebrei da spaventare per passare il tempo e rompere la monotonia della vita di guarnigione” (A. Puskin, La figlia del capitano).
Il comunismo non ha operato cambiamenti significativi nella coscienza profonda dei popoli dell’est ed ha utilizzato la loro identità nazionalistica e la struttura del preesistente potere autoritario per affermare il proprio, spesso senza fare i conti con il passato, come è accaduto per la Germania Est, dove è pressoché mancata ogni azione denazificatrice. Non è un caso che proprio nei Lander orientali il movimento neonazista ha raccolto significativi consensi.
In organismi sociali, dove la cultura della libertà ha faticato e fatica ad imporsi, le istituzioni democratiche sono deboli, e proprio perché è debole la cultura democratica nella società, si afferma l’idea del governo forte che difende l’identità e i confini nazionali dalle minacce interne e esterne.
In questi contesti lo Stato perde la sua connotazione di diritto e l’autonomia dei poteri viene erosa e limitata a vantaggio del potere esecutivo, rappresentante e depositario della volontà popolare espressa mediante una “democrazia illiberale”, votata alla difesa della tradizione, minacciata dalla cultura delle libertà, che invece significa riconoscimento della diversità.
L’Europa oggi è divisa da una faglia neppure sotterranea tra Ovest, ancora ancorato ai valori della democrazia liberale e dello Stato di diritto (sebbene anche nell’Ovest le suggestioni nazionalpopuliste si stiano affermando, sia pure in dimensioni diverse e non ancora maggioritarie, salvo che in Italia), e quei paesi dell’Est raccolti nel cosiddetto Gruppo di Visegrad, fautore della democrazia illiberale e della riduzione delle garanzie di libertà (V. Castronovo, Il Sole24ore, 6 settembre 2018).
La globalizzazione come male assoluto?
Per i nazionalpopulisti l’apertura al mondo lede la sovranità dei popoli che per garantirsi il benessere devono per forza difendersi con i muri reali e virtuali da ogni sfida esterna, prima fra tutte quelle della globalizzazione.
Non c’è dubbio che la globalizzazione dei nostri tempi (caratterizzata dalla deregolamentazione dei mercati, associata a una radicale liberalizzazione dei flussi di capitale, accompagnata dall’offerta di moneta pressoché illimitata e dalla liberalizzazione commerciale) abbia dato luogo ad una società globale di mercato (M. Magatti, 2014), ha profondamente modificato i rapporti di forza economici in favore della Cina e delle altre nascenti potenze asiatiche a sfavore dell’Europa.
Il nostro Continente ha perso gran parte della sua supremazia nel mondo, che condivideva con gli USA e con il Giappone, affidando peraltro all’America il monopolio della politica estera e della difesa, e quindi non sostenendone neppure i costi.
Il fenomeno planetario della globalizzazione dei mercati con l’avvento di nuove potenze economiche asiatiche, ed ora non più solo economiche come la Cina, ha completamente spiazzato le società occidentali, impaurite per la perdita di ruolo e di sicurezza; infatti, se attraverso la globalizzazione milioni di persone del Terzo mondo sono uscite dalla soglia di povertà e hanno avuto accesso al benessere, correlativamente altri milioni dell’Occidente hanno visto decrescere il proprio reddito e diminuire le garanzie di tutela sociale.
A questo mutamento epocale si è aggiunta la più grave, profonda e duratura crisi economica che ha portato ad allargare la povertà nei paesi occidentali con slittamento verso il basso della classe media.
La polarizzazione crescente della ricchezza in mano a pochi e la progressiva riduzione di ruolo e di status delle classi medie hanno progressivamente eroso la base sociale e la stabilità delle società occidentali (R. Prodi, 2017).
Non solo, ma i cambiamenti climatici, che inaridiscono territori, spingono milioni di persone ad abbandonare le proprie case e a tentare la via della speranza di vita verso il nord del pianeta.
Il diritto internazionale conosce la figura del perseguitato politico e del profugo di guerra, ma non quella del profugo climatico che scappa dalla fame e dalla miseria causate da quei cambiamenti del clima.
La retorica nazionalpopulista lo assimila all’emigrato per motivi economici e spiega che deve rientrare a casa sua o che, al massimo, lo si deve aiutare là, ma non si fa carico di mettere in campo nessuna iniziativa che non sia affrontare la politica migratoria in termini di mero ordine pubblico e di identità:
“non sentiamo i pianti dei bambini che andranno a letto affamati perché l’incapacità dei Paesi ricchi di affrontare il problema del cambiamento climatico ha ridotto le precipitazioni di cui i genitori hanno bisogno per coltivare il cibo destinato a sfamarli. Né questi bambini né le loro famiglie potranno chiedere asilo nei Paesi responsabili di cambiamenti climatici” (P. Singer, Il Sole24ore, 18 luglio 2018).
Con ciò non si intende negare che il fenomeno migratorio non stia destabilizzando le società europee spaventate dalla crisi e dalla perdita di dominio economico – tecnologico, anzi, questa paura non va né trascurata né sottovalutata come il prodotto di subculture o culture antagoniste, settarie e razziste, perché essa manifesta lo spaesamento di popoli che si trovano ad essere non più egemoni e non più benestanti come prima.
Questa paura sta solidificando un’alleanza sociale tra ceti proletari e i ceti medi impoveriti, accomunati dall’essere i perdenti della globalizzazione.
Di fronte a questo cambiamento d’epoca non sorprende che stia mutando, e in gran parte sia già mutata, la scala dei valori e dei principi su cui si è fondato e sviluppato l’Occidente nel secondo dopoguerra.
Valori come la solidarietà, la tutela delle libertà, lo stato di diritto, lo stesso principio democratico, che hanno dominato la cultura e le politiche dell’Occidente, sono oggi in ripiegamento.
La perdita delle sicurezze economiche e sociali del passato ha trasformato le nostre società in luoghi della competizione darwiniana tra le persone, ha ridato dignità all’intolleranza, ha aumentato il livello di accettazione delle limitazioni delle libertà e della democrazia.
La resistibile ascesa del sovranismo
Lo slogan che afferma la supremazia di una comunità di popolo sulle altre (prima gli italiani, ecc.) è la sintesi perfetta del nuovo clima culturale.
A settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, a 29 dal crollo del Muro di Berlino, la democrazia liberale è in ritirata, perché, a fronte delle nuove sfide dell’oggi, la risposta democratica, come sempre, non può che essere la risposta dei diritti delle persone, ma questa risposta è vista dai nazionalpopulisti come il privilegio delle élite che non vivono il dramma della povertà, del confronto/scontro quotidiano nelle periferie per le case, nei pronto soccorso per la cura, della precarietà del lavoro sottopagato.
Invece per molti la risposta che appare più accattivante, credibile e efficace, per governare con successo questi fenomeni appare essere – in Italia sicuramente alla maggioranza degli elettori – quella nazionalpopulista che si basa sull’individuazione di un nemico: le élite che vanno rimosse, sull’eliminazione del pluralismo istituzionale e della sfera di autonomia degli apparati dello Stato siano essi le autorità indipendenti (si veda il caso della Consob), siano i funzionari della PA, che devono obbedienza assoluta al potere politico, sull’insofferenza per la democrazia rappresentativa e le sue interdipendenze sovranazionali da sostituire con la democrazia diretta della rete e con un parlamento depoliticizzato, non eletto, ma nominato per sorteggio (S. Fabbrini, Il Sole24ore, 5 agosto 2018).
Il diritto diventa un privilegio che non può essere più di tutti e per tutti: riduzione dell’autonomia dei poteri. Il diritto sociale viene assunto come diritto non della persona secondo il bisogno, ma in base all’appartenenza alla comunità nazionale identitaria per lingua e religione e status di cittadinanza (ad esempio, il neonazionalismo ungherese).
Questa tipologia di nazionalismo autoritario è il substrato ideologico del populismo che di per sé è privo di un pensiero unificante. Solo il nazionalismo offre ai populisti l’unico riferimento identitario che è la nazione sovrana.
Il cosiddetto sovranismo non è che l’idea di una purezza del principio di sovranità, dove ogni comunità territoriale decide in casa propria senza alcun vincolo esterno che possa limitarne l’azione.
Quando i nazionalpopulisti proclamano che in economia prima vi debba essere la crescita e poi il rispetto dei vincoli assunti con l’UE, non stanno dicendo che va rivista la politica economica rigorista, ma dicono qualcosa di più radicale.
I vincoli vanno disattesi perché ostacolano la sovranità nazionale e poco importa se, ad esempio, quelli di mercato che gravano sul nostro debito pubblico derivano dal fatto che il debito stesso è finanziato per oltre il trenta per cento da investitori privati, molti dei quali sono risparmiatori italiani.
La risposta “sovranista” è l’illusione di chi immagina che il rispristino del confine consenta di riacquistare il pieno controllo sulla propria comunità.
Si tratta non solo di un’illusione, ma anche di un inganno, perché viviamo in una società globale interdipendente. Perciò se è certamente possibile proporre una politica alternativa nei contenuti, non è né serio né onesto offrire al “popolo” soluzioni impossibili, oltre che irragionevoli. La proposta sovranista favorisce le potenze maggiori e globali e penalizza quelle piccole e medie. Non è un caso che gli USA di Trump e di Bannon con il suo The movement e la Russia di Putin siano i maggiori fautori della disgregazione dell’UE e sostenitori della Brexit.
Non c’è dunque da stupirsi se per tutti i nazionalpopulisti il nemico numero uno sia l’Unione europea con le sue regole, le sue prescrizioni e i suoi vincoli. Per nazionalpopulisti questo apparato organizzativo e normativo non è che l’espressione della cultura politica e degli interessi delle élite variamente intese, contro i popoli e contro il singolo cittadino.
Il nazionalpopulismo non si presenta allora come un’alternativa politica agli attuali equilibri di potere. Esso persegue un vero e proprio progetto antagonista e rivoluzionario che ha per obiettivo il superamento non di questa Unione, ma dell’Unione stessa, che va sostituita con una rete di stati sovranisti legati tra di loro dai valori fondanti della nostra civiltà occidentale “Dio – Patria – Famiglia”, distruttivamente e irrazionalmente aggrediti dalla cultura laicista e relativista (M. Salvini, in P. Annicchino, Il Foglio 18 settembre 2018).
Nel moralismo che anima i nazionalpopulisti è virtuoso e morale limitare l’autonomia dei poteri, dichiarare di non rispettare i vincoli di bilancio, se questi limitano o impediscono il raggiungimento dei loro obiettivi, che sono per definizione giusti e morali, perché rispondono alla nuova rappresentanza del popolo.
C’è da dire che molta parte della crescita di questo fenomeno è dovuta anche all’incapacità delle forze politiche “tradizionali” di affrontare con successo il tema della povertà, della diseguaglianza, della precarietà del lavoro, della tutela della persona (non a caso il Pontefice parla di cultura dello scarto con riferimento alle persone, agli ultimi della terra). C’è infatti “Dietro al successo recente dei partiti populisti c’è una tensione latente fra domanda e offerta di protezione sociale. Da un parte, una crescente vulnerabilità ai cambiamenti tecnologici e alla globalizzazione di vasti strati di popolazione alimenta una forte domanda di protezione. Dall’altra, non ci si fida di chi dovrebbe offrire questa protezione e, dunque, si avverte la necessità di rivolgersi ad outsiders che non abbiano apparentemente alcun legame con la classe dirigente” (T. Boeri, 2017).
Due politiche alternative
L’alternativa non è tra due politiche che si confrontano all’interno dell’UE, una più protezionista, l’altra più aperta, ma tra una concezione della politica autoritaria e illiberale e una politica liberale, sociale e democratica.
Queste due politiche oggi sono entrambe rappresentate sia a livello degli Stati singoli sia all’interno degli organismi dell’Unione.
Lo scenario di fondo è nitido e drammatico, ove prevalesse la concezione illiberale, l’UE sarebbe finita, giacché sarebbe la sconfitta degli ideali e dei principi che l’hanno motivata e su cui si basa.
L’idea dell’UE è nata per creare attorno ad una struttura di potere sovranazionale una nuova identità nazionale europea, un popolo europeo coeso per ideali e cultura, tuttavia, poiché l’Unione è fondata da e su stati nazionali territoriali con antichissime e differenti peculiarità, con differenti lingue e con storie anch’esse differenti quanto antiche, si comprende come il cammino unitario sia difficile e accidentato e non sorprende che l’egemonia nel processo di formazione dell’Unione non appartenga ai popoli, ma ai singoli Stati membri. Difatti, il vero baricentro del potere europeo sono gli organi di governo (Consiglio europeo e Consiglio dei ministri dell’Unione che ha potere sia esecutivo che legislativo), che rappresentano i singoli governi degli Stati membri, mentre il Parlamento europeo, pur essendo l’organo eletto che rappresenta idealmente il popolo europeo, non legifera e ha limitati poteri di controllo e di veto sull’operato degli organi di governo.
Dunque, la vicenda storica dell’UE non si discosta dalla centenaria lotta di potere tra governi e parlamenti nazionali.
Nella storia dell’Occidente hanno sempre vinto i parlamenti, ma la differenza sostanziale rispetto a quelle esperiente è che i parlamenti rappresentavano una nazione, cioè un popolo munito di una sua fisionomia unitaria, mentre invece il popolo europeo non costituisce un organismo omogeneo, bensì è l’insieme delle varie e diverse comunità nazionali.
La strada che ha davanti a sé il Parlamento europeo è molto più impervia di quella già percorsa dai parlamenti nazionali.
A ciò si aggiunga che il venire meno, o quantomeno l’affievolirsi, delle grandi culture politiche del ‘900 rende ancor più labile la capacità di sintesi e di rappresentanza unitaria dei popoli attraverso i partiti tradizionali custodi e interpreti dei valori costituivi dell’UE.
Le elezioni europee del 2019
Le elezioni europee del 2019 assumono una rilevanza assolutamente nuova, perché esse non disegneranno soltanto nuovi rapporti di forza nel Parlamento, ma affermeranno un’idea di Europa illiberale oppure rilanceranno le idee e i valori di fondo liberali, democratici e solidali, unitamente ad una nuova Unione con nuovi e maggiori poteri per garantire il futuro, non un futuro ai suoi popoli.
L’UE ha ricevuto sovranità dagli Stati membri, ma anche aggiunto ai suoi cittadini regole e benefici (si pensi alla cittadinanza europea che si affianca a quella nazionale, alla libera circolazione delle merci e delle persone), ha garantito la pace in un Continente che si è costruito sulle macerie di guerre infinite.
Non è però riuscita a garantire ai suoi cittadini la tutela necessaria nei confronti delle sfide della globalizzazione. E’ priva di una politica estera pur avendone un rappresentante. Non ha una politica sociale che è di pertinenza dei singoli Stati (T. Boeri, 2017), non ha poteri adeguati di politica economica che affianchino quelli della politica monetaria (A. Padoa – Schioppa, Il Sole 24ore, 4 agosto 2018).
Ecco allora che si può delineare un programma concreto, innanzitutto ribadendo e attualizzando una piattaforma di principi e valori non negoziabili:
democrazia liberale;
tutela e promozione dei diritti di libertà e dei diritti sociali;
tutela e promozione del diritto di eguaglianza delle persone;
garanzia dello Stato di diritto e dell’autonomia dei poteri;
lotta a ogni forma di autoritarismo, intolleranza e razzismo;
lotta a ogni forma di illegalità.
Sulla base di questi principi e per garantirne la tutela e la promozione nell’ambito dell’UE, si propone:
il rafforzamento del ruolo e dei poteri del Parlamento europeo, quale luogo della rappresentanza diretta dei popoli;
l’attribuzione all’UE di poteri reali in politica:
2.1 economica;
2.2 sociale;
2.3 estera;
2.4 difesa.
L’alternativa è dunque tra una politica sovranista/nazionale di destra, settaria, intollerante e illiberale, e una europea, dove l’Europa assuma la fisionomia e i poteri di una vera entità politica unitaria, attrezzata per affrontare, eliminare e correggere le distorsioni e le ingiustizie della globalizzazione.
Un’Europa che aiuti gli ultimi propri e del mondo può essere davvero un’alternativa di pace alle politiche dell’esclusione, della paura e del sovranismo.
(Il video del XXV Incontro di Studi)