Il giorno di Joe Biden

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Il 46° presidente degli Stati Uniti si insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio del 2021

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Foto di David Mark da Pixabay

Il ticket presidenziale democratico formato da Joe Biden e Kamala Harris ha raggiunto il risultato incredibile di 75 milioni di voti popolari a livello nazionale, di fatto battendo ogni record relativo alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Di per sé, come è noto, il risultato a livello nazionale non è sinonimo di vittoria finale, visto che a norma della Costituzione il Presidente viene eletto dai grandi elettori espressi da ogni singolo Stato dell’Unione fino ad arrivare alla soglia magica dei 270: ne è testimone Hillary Clinton che quattro anni fa perse contro Donald Trump pur avendo ottenuto essa stessa la vittoria a livello nazionale, sia pure con molti meno elettori.

Biden invece entra alla Casa Bianca spinto da una grandissima affluenza al voto, dal risultato nazionale e a quello di numerosi Stati chiave, da ultima la Pennsylvania, suo Stato di nascita, sebbene la sua carriera politica si sia svolta soprattutto nel Delaware, lo Stato che ha rappresentato al Senato federale per 36 anni dal 1972, fino a diventare nel 2008 il Vice di Barack Obama. Questo risultato archivia definitivamente la noiosa questione del supposto carattere elitario del progressismo statunitense, che peraltro era già presente in nuce nel voto di quattro anni fa.

Il dato di fatto è che a favore di Biden – o contro Trump, il che nelle condizioni date è la stessa cosa – si è mobilitato un popolo intero, composito, talvolta contraddittorio, come è tipico in una democrazia bipartitica che nel corso degli ultimi anni ha acuito le differenze fra i due principali schieramenti attraverso la presenza di gruppi di pressione che hanno condizionato la vita dei partiti, i quali non sono paragonabili, come è noto, ai partiti europei ed hanno spesso il ruolo di comitati elettorali a livello statale o cittadino, con organismi nazionali che hanno un ruolo di coordinamento più che di indirizzo politico. La radicalizzazione intervenuta nei due partiti è dovuta all’acuirsi della presenza militante di piattaforme politiche organizzate che hanno manifestato capacità di mobilitazione e di crowfunding (attività essenziale in un sistema politico costosissimo come quello statunitense) e che prevalgono facilmente su strutture deboli e su una militanza spesso ridotta al momento elettorale come è quella dei due partiti. Fa l’altro, il motivo per cui nessun “terzo partito” ha mai attecchito è proprio perché i titolari di singole issues sanno di poter trovare un qualche tipo di collocazione all’interno di uno dei due partiti – o di ambedue.

Trump ha perso, pur avendo radunato intorno a sé un consenso nazionale di 71 milioni di voti, perché di fatto ha acuito ogni possibile tensione che fosse presente nel corpo vivo e spesso malato della società statunitense attraverso il meccanismo ben consolidato di parlare a nome del popolo intendendo per popolo chi era d’accordo con lui ed additando tutti gli altri come “antiamericani”, nemici del popolo, figure da eliminare o incarcerare (ancora in campagna elettorale lui auspicava il carcere per Biden in quanto autore di un imprecisato complotto ai suoi danni). In sostanza Trump non è stato il Presidente di tutti gli Stati Uniti ma solo quello dei suoi elettori, coltivando pazientemente la loro radicalizzazione e facendo proprie, senza averne l’aria e senza dichiararlo apertamente, tutte le più folli teorie complottiste ed ispirando ad esse anche la sua gestione dir poco confusionaria ed irresponsabile della crisi pandemica in atto. Più in generale, la presidenza Trump è la plastica dimostrazione di che cosa si intenda per populismo, ossia la reazione ad una politica tradizionale percepita come corrotta, autoreferenziale e distratta rispetto alle esigenze reali del popolo (inteso come realtà omogenea e virtuosa) cui contrapporre una leadership più immediatamente vicina alla “gente”, magari non qualificata accademicamente o politicamente (Trump in vita sua non aveva mai partecipato ad alcun cimento elettorale e non sapeva letteralmente nulla della conduzione degli affari pubblici prima delle sua elezione nel 2016 – e proprio questo lo rese appetibile agli occhi di molti elettori dei ceti popolari, che di per sé non avevano nulla da spartire con un miliardario nemmeno “self-made” ma nato e cresciuto ricco) . Il rovescio della medaglia di questo approccio politico è l’incapacità di governare, che si è manifestata nel continuo cambiamento della squadra di governo e dei più stretti collaboratori e con una narrativa tossica in cui il Presidente in prima persona si esprimeva sui social media per insultare e denigrare i suoi avversari interni ed esterni.

E tuttavia questa narrativa ha fatto breccia, segno che essa era espressione di un moto presente sia pure in forma carsica all’interno della società americana e un po’ in tutto l’Occidente, trovando il suo terreno di coltura in quei settori del ceto medio impoverito, o delle classi sociali più basse, che hanno la sensazione di essere dal lato perdente della globalizzazione e vedono ridursi drammaticamente gli spazi di opportunità e di ascesa sociale per se stessi e e per i propri figli. Ovviamente a Trump non importa nulla di queste persone, perché vede in esse una massa di manovra contro i suoi avversari, e tanto meno lo interessavano le utopie di un’ “internazionale sovranista” (una contraddizione in termini a pensarci bene) che tanto affascinavano Steve Bannon, altro personaggio che alla prova dei fatti si è rivelato essere più ciarlatanesco che mefistofelico.

Rimane il fatto che tutte quelle tossine, quei veleni, sono ancora in circolazione nel corpo vivo della società americana, e che al fondo di esse vi sono delle ragioni oggettive che debbono essere ascoltate. Ecco, il ruolo di Biden, uomo politico di lunga esperienza ed in età ormai avanzata, dovrà probabilmente essere in primo luogo quello del federatore, del ricompositore , per quanto possibile, delle divisioni e delle piaghe di una società complessa attraversata da contrasti sociali, etnici, religiosi, che il suo predecessore ha accuratamente attizzato e che ora chiedono una soluzione equa, un approccio mite e comprensivo, un approccio politico coerente, la vicinanza alla quotidianità delle persone, la limpidità dei comportamenti. Biden è stato capace di costruire una coalizione sociale e politica vincente, ora deve impegnarsi a prefigurare un futuro che in larga parte non sarà suo: come Nerva, all’indomani della caduta della tirannide di Domiziano, che prefigurò la serie positiva degli imperatori adottivi. O come il breve pontificato di Giovanni XXIII, che aprì la strada del Concilio.

E proprio questo riferimento, ben chiaro alla mente di un cattolico praticante come Biden, che nella sua fede ha trovato il conforto ed il sostegno per attraversare molte difficoltà ed autentiche tragedie della sua vita, introduce un capitolo laterale ma non secondario di questa campagna elettorale, giacché è spesso sembrato che uno dei veri avversari di Trump in questa elezione fosse Papa Francesco. Infatti, non tanto per sua volontà, quanto per quella di settori non indifferenti dell’episcopato, del clero e di una certa intellettualità cattolica statunitense sempre più radicalizzata a destra, Trump è apparso non solo come un leader politico ma anche e soprattutto come un leader spirituale contrapposto a Francesco, descritto come un traditore, un rinnegatore delle verità di fede, un nemico della libertà religiosa (si pensi all’incredibile interferenza del Segretario di Stato di Trump, Mike Pompeo, riguardo all’accordo fra santa sede e Cina sulla nomina dei Vescovi).
Il fatto che Biden abbia citato l’ultima enciclica Fratelli tutti in uno dei suoi ultimi interventi elettorali, se non ipoteca nulla rispetto alle scelte concrete che il prossimo Presidente compirà nei prossimi quattro anni, è comunque il segnale di un’altra ricomposizione in atto, di cui dovranno tener conto anche molti settori del cattolicesimo a stelle e strisce.