
Poche figure sono paragonabili a quella di Mikhail Gorbaciov, morto in questi giorni a 91 anni dopo una lunga malattia: per certi versi, e con le differenze del caso, viene in mente Adolfo Suarez, il principale attore della transizione alla democrazia della Spagna post franchista.
Ambedue cresciuti nei meccanismi di un sistema autoritario, asfittico e corrotto, ambedue al fondo pregni dei valori e dei disvalori di quel sistema, ambedue abbastanza intelligenti ed onesti da rendersi conto che non era possibile proseguire per quella strada, ambedue ben determinati a servirsi degli spazi di potere di cui via via si impadronivano per portare avanti il proprio disegno riformista.
La differenza, al di là delle evidenti disparità di scala fra un Paese tutto sommato marginale quale era divenuta la Spagna e una grande Potenza imperialista come l’URSS, stava nel fatto che Suarez si rese conto fin da subito che il sistema di potere franchista non era riformabile ma andava semplicemente smontato, cosa che riuscì a fare in concorso con altri protagonisti della transizione, a partire dal re Juan Carlos, senza che sostanzialmente vi fosse spargimento di sangue.
Gorbaciov fino all’ultimo, fino al 1991, anno della sua defenestrazione e dello scioglimento dell’ URSS, ritenne possibile una riforma che tenesse insieme il recupero delle libertà pubbliche con il mantenimento di un vago approdo “socialista” e, soprattutto, dell’unità del grande paese costruito da Lenin sulle macerie dell’impero zarista, che Stalin aveva trasformato nella forza guida di un sistema imperiale basato sulla forza, mentre la fratellanza ideologica con gli altri partiti comunisti nei Paesi capitalisti avrebbe a lungo permesso un accreditamento positivo presso settori più o meno ampi dell’ opinione pubblica occidentale.
Le sue idee per il superamento dell’equilibrio del terrore non erano banali, a partire da quella della “casa comune europea”, ma partivano dal presupposto errato che comunque vi sarebbe ancora stato equilibrio fra il campo capitalista e quello socialista, dimenticando forse ciò che a Mosca nessuno ignorava, ossia che nessuno dei partiti comunisti al potere nell’area del Patto di Varsavia vi era arrivato per forza propria, ma solo perché ve lo avevano portato le baionette dell’Armata Rossa, che, prima in Ungheria e poi in Cecoslovacchia, provvidero anche a puntellare i loro compagni che rischiavano di franare. Di fatto, i governanti comunisti di Berlino Est, Praga , Budapest, Sofia, erano una sorta di esercito invasore accampato in territorio ostile, e appena i cittadini di quei Paesi poterono dire la loro chiesero, né più né meno, di avere ciò che avevano gli europei che vivevano ad ovest di quel Muro il cui crollo fu il segnale della fine di un’epoca.
Il merito indiscutibile di Gorbaciov è stato quello di avere gestito questa fase di transizione senza che fosse accompagnata da pericolose convulsioni, rivolte e stragi, se si esclude il peculiare caso romeno, accettando quella che di fatto era la smentita di tutti i valori ed i presupposti ideologici in cui era cresciuto.
Meno facile fu la gestione delle riforme interno alla stessa Unione sovietica, in cui si moltiplicavano le richieste di autonomia di coloro che vi erano entrati a viva forza, a partire dai tre Stati baltici che, non a caso, furono fra i primi a raggiungere l’indipendenza. Dopo il tentativo insensato del golpe dell’agosto del 1991, posto in essere da parte di persone che Gorbaciov stesso aveva scelto come suoi collaboratori (come il Vicepresidente dell’Unione Janaev) allontanando alcuni dei riformisti della prima ora, la soluzione di Boris Eltsin, neo Presidente della Repubblica sovietica di Russia, di concedere la piena indipendenza a tutte le Repubbliche periferiche (a partire da Ucraina e Bielorussia), fu forse l’unica opzione possibile alternativa ad una devastante guerra civile in un Paese dotato dell’arma atomica.
Questo fu il grave peccato che i nazionalisti russi, a partire da Vladimir Putin, imputano a Gorbaciov, che non a caso ha passato in un sostanziale isolamento gli ultimi trent’anni della sua esistenza: aver accettato la dissoluzione di un grande Paese, aver perso un impero. E questo, si badi bene, non in nome del comunismo ma di un aggressivo nazionalismo imperialista che ha sempre connotato l’anima russa (l’abilità di Stalin, detto per transenna, fu quella di mettere questo nazionalismo al servizio della causa sovietica prima durante la seconda guerra mondiale e poi nella gestione della fase successiva).
Gorbaciov fu particolarmente popolare in Italia, e questo non a caso nel Paese in cui esisteva il più grande partito comunista d’Occidente: per certi versi si può dire che egli fu per alcuni anni (diciamo fra il 1985 ed il 1989) il perfetto pretesto per un gruppo dirigente assai più dipendente dall’Unione Sovietica, almeno in termini psicologici, di quanto poi certe memorie encomiastiche ed autoassolutorie abbiano fatto credere, per evitare di fare i conti fino in fondo con il fallimento del presupposto stesso dell’esistenza del PCI, ossia sulla supremazia del modello bolscevico su quello socialdemocratico per la realizzazione dell’emancipazione dei lavoratori.
Non a caso, la scelta di Achille Occhetto di cambiare il nome del partito venne solo dopo la caduta del Muro di Berlino, denotando una volta di più il ritardo sostanziale di un gruppo dirigente incerto e sbandato rispetto ai passaggi incalzanti di una storia che Gorbaciov stesso aveva contribuito a rimettere in movimento.
Quali che siano state le sue intenzioni, a Gorbaciov rimane il merito storico di avere ridato la libertà a milioni e milioni di persone, e anche se questo non gli è bastato per evitare l’irriconoscenza ed il disprezzo di molti suoi connazionali, indubbiamente gli garantisce un posto di primo piano nella storia dell’umanità.