Il senso dello Stato dei cattolici democratici

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Dedicato a Tina Anselmi
Su L’Unità del 20 ottobre sotto il titolo “Quale democrazia: la posta in gioco anche per i cattolici”, Emma Fortini interviene per argomentare il Sì al referendum sulla riforma costituzionale e sostiene, citando Arturo Parisi, che per i cattolici la posta in gioco sarebbe “quella di una visione della democrazia, un’idea forte fondata sul primato della società civile e sull’idea che lo scettro deve ancora compiutamente tornare nelle mani del principe e cioè dei cittadini.

Una visione che è all’origine, e nel cuore stesso, della migliore tradizione del cattolicesimo europeo del Novecento, del quale la Riforma costituzionale non solo non è un tradimento ma è il migliore inveramento e nel cui solco si iscrive, in piena continuità”.

Il ragionamento non appare convincente e sembra forzato da una esigenza motivazionale nella prospettiva del referendum costituzionale.

Non si vuole qui contestare la tesi su esposta per sostenere una ragione opposta nel confronto referendario, bensì ragionare attorno al presupposto di una cultura politica dei cattolici democratici che sarebbe asseritamente fondata sul primato della società civile sullo Stato con un ritorno ad un ruolo rafforzato del popolo sovrano che riavrebbe lo scettro della decisione politica.

Presupposto che, nei termini in cui è stato enunciato, non è per nulla condivisibile.

Contrapporre la Società allo Stato in una gerarchia di ruoli significa confinare la presenza politica dei cattolici in una condizione di estraneità e di opposizione che storicamente, almeno in Italia, ha comportato dalla presa di Porta Pia e con la proclamazione del non expedit l’esclusione dei cattolici rispetto alla costruzione dello Stato unitario, salvo accorrere in soccorso della classe dirigente liberale minacciata nella sua egemonia dai socialisti con il patto clericale e conservatore del Conte Gentiloni e dell’Opera dei Congressi.

Occorrerà arrivare al 1919 con il Partito Popolare per avere una rappresentanza laica e moderna non già degli interessi temporali della Chiesa, ma di una concezione della politica fondata sull’intangibilità dei valori della persona da cui è promanata una proposta politica aperta a tutti i “liberi e forti” di Don Sturzo.

Non esiste per i cattolici democratici un primato della Società sullo Stato, a meno che non si voglia confondere questa pretesa supremazia con l’originalità dei diritti fondamentali della persona, che le appartengono naturalmente e che non sono creati dallo Stato, al quale compete di garantirli, quindi anche di promuoverli (art. 2 Cost.).

Lo stesso principio di sussidiarietà, cosiddetta orizzontale (art. 118 ultimo comma Cost.), non delinea nessuna supremazia della Società, ma afferma che le istituzioni pubbliche territoriali, nazionale e locali, riconoscono che esiste uno spazio proprio della Società per il perseguimento di interessi generali ed assegna ad esse istituzioni il compito di intervenire ove la comunità non riesca autonomamente a perseguire quegli interessi.

La sussidiarietà disegna un modo di essere dello Stato verso la Società, non dunque una sua subalternità.

Don Sturzo contestava lo Stato liberale, elitario e borghese, perché voleva trasformarlo in Stato autenticamente democratico. La sua idea delle autonomie locali mutuata da Tocqueville rispondeva alla necessità di adeguare la forma centralista dello Stato unitario alla storia delle comunità regionali e locali, in quanto comunità di popolo.

De Gasperi e Moro hanno agito per rafforzare le fragili basi democratiche dello Stato con la strategie delle alleanze politiche per condurre nella sfera del governo gli esclusi e gli estranei alla logica ed ai principi della democrazia.

Il senso dello Stato come consapevolezza del suo essere terzo e casa comune sta dentro l’esperienza politica dei cattolici democratici; certo non sono mancate ombre e contraddizioni, ma tre esempi per tutti hanno contribuito a segnare la rotta di un impegno laico e sicuramente democratico.

De Gasperi che rifiuta l’operazione clerico – fascista di un’alleanza per le comunali di Roma; Tina Anselmi che dirige la commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 e smaschera un contropotere segreto, oscuro, minaccioso, sovversivo; Nino Andreatta che non esita a mettere sotto inchiesta la banca vaticana inquinata da una gestione spregiudicata e opaca.

Da questa cultura, pur con tutte le riserve critiche dell’esperienza storica dell’egemonia democristiana, che ha coinciso con l’intero periodo della Prima Repubblica”, è derivato il senso dello Stato dei cattolici democratici, presenti nella vita sociale con le loro strutture e opere, ma anche nelle istituzioni come presenza attiva ed originale.

Presenza che è andata illanguidendo e, diciamolo pure, diventata oggi irrilevante, soprattutto come pensiero e proposta di governo, al punto che si potrebbe ritenere che questa condizione di minorità sia derivata strutturalmente dal venire meno di un partito che elabora la proposta e la rappresenti.

Questa lettura, se riferita all’unicità del ruolo della Democrazia cristiana, ha un suo fondamento, ma non nella prospettiva storica dell’impegno politico. dove l’appartenenza ad una cultura non è più riconducibile entro il perimetro di un partito.

Intendiamoci, non è neppure questione di una identità da costruire o da ricostruire, come se si trattasse di contrapporsi ad altre identità che, peraltro, sono anch’esse in crisi, basti pensare all’evanescenza della sinistra e dell’idea di sinistra, la cui crisi addirittura metterebbe in crisi la democrazia (A. Schiavone, Corsera 27 ottobre 2016), d’altro canto la globalizzazione dei mercati e la crisi del principio della sovranità statuale ha creato e crea notevoli difficoltà anche al pensiero liberale.

La recrudescenza del nazionalismo a tendenza autoritaria che si è affacciato e si sta affacciando nei Paesi dell’Est europeo e nella Russia di Putin, le inclinazioni populiste e neo nazionaliste nei Paesi occidentali, appaiono oggi come la risposta più efficace, ancorché erronea, alla perdita della sovranità nazionale e per la ripresa di ruolo del popolo, o dei popoli depositari del potere sovrano sottratto o limitato da elites di governo ritenute incapaci di garantire tutela e prospettiva di sviluppo.

E’ dunque la rappresentanza democratica ad essere in difficoltà non i suoi strumenti, perciò assegnare rilevanza quasi salvifica alle riforme costituzionali significa attribuire alla norma, sia pure di rango costituzionale, una funzione che non le appartiene, perché nella cultura dei cattolici democratici, la regola disciplina il processo democratico ma non lo crea, al più l’asseconda e lo favorisce.

Qui sta il nodo del rapporto tra cattolici e Stato, o meglio tra cattolici democratici e Stato, giacché la qualificazione di democratico dimostra di per sé l’accettazione di un principio, quello della legittimazione del potere sul consenso popolare, e di un metodo, quello della relatività e reversibilità dell’esercizio del potere. Lo Stato non è solo strumento per l’esercizio dell’autorità, è altresì valore in sé, cioè dotato di una sua intrinseca eticità, come forma politica della comunità che si governa e non si fa governare.

In questa prospettiva rappresentanza dei ceti popolari e allargamento della base democratica dello Stato costituiscono il nesso inscindibile della proposta politica dei cattolici democratici.

La regola istituzionale assume il carattere finalistico dell’inclusione, affinché essa sia effettivamente condivisa come luogo della convivenza democratica e come punto di incontro e di sintesi tra interessi differenziati.

Quel che non convince della riforma costituzionale, a prescindere dal suo merito, è la sua natura escludente, come prodotto di un obiettivo politico da perseguire a prescindere dai suoi effetti.

Con ciò non si intende sostenere che la riforma costituzionale debba essere sempre l’esito di un consenso largo, né l’art. 138 Cost. che disciplina il procedimento di modifica lo richiede, piuttosto è discutibile il presupposto: essa è percepita come la riforma di una parte, di questa percezione è vittima lo stesso referendum che, invece di servire a sanzionare con il voto popolare la volontà includente del Parlamento, è diventato lo strumento per mettere in evidenza, al di là del merito della riforma stessa, la mancanza proprio della volontà e finalità inclusiva.

In questa ottica, per il carattere finalistico che suo malgrado riveste, la riforma costituzionale segna una eccezione nella tradizione politica dei cattolici democratici.