
Un attacco chimico che causa centinaia di morti in Siria, perpetrato da un governo riconosciuto dalla comunità internazionale, un attacco missilistico USA ad un Paese sovrano, deciso nel più assoluto riserbo dal Presidente USA mentre cena nella sua villa in Florida con il Presidente cinese, un attentato terroristico a Stoccolma. Fatti non contenuti in un anno, ma in 3 giorni. Mezza settimana.
Anni fa la “seconda superpotenza mondiale”, vale a dire l’opinione pubblica mondiale secondo una definizione del New York Times risalente a prima della Seconda guerra del Golfo, avrebbe fatto sentire in qualche modo la propria voce. Ognuno di questi fatti, in sé, sarebbe stato fonte di shock, discussioni in famiglia e sui luoghi di lavoro, nei contesti pubblici e privati. Oggi nulla.
Personalmente non sono convinto dell’utilità in senso assoluto degli strumenti di mobilitazione dei periodi passati: ogni epoca ha i suoi modi e i suoi tempi.
Ma quello che oggi balza all’occhio è l’assuefazione.
Assuefazione a quella che davvero è una Terza Guerra Mondiale a pezzi. Conflitti sparsi e principalmente a bassa intensità, scenari di guerra che vanno da un deserto del Medio Oriente a un centro commerciale del Nord Europa. Presidenti eletti che sono a loro volta dittatori a bassa intensità, consapevoli di avere carta bianca sia sul fronte interno che su quello esterno.
La crisi delle democrazie è tale soprattutto perché queste sono minate dal proprio interno più che attaccate dall’esterno. Minate dall’idea del consenso come unico faro e unico parametro. Ma il consenso senza il rispetto delle minoranze e la valorizzazione delle differenze porta al populismo e all’esclusione, che di esso è la conseguenza.
Rinnovare gli strumenti, il vocabolario, le fondamenta della democrazia pare l’unica, lunga strada per provare a contrastare la deriva populista e la prostrazione dell’opinione pubblica.
Paolo Ricotti
responsabile Relazione Internazionali delle Acli Milanesi