Cara Bosnia,
Come ben sai, un anno fa ho lasciato un contratto di lavoro, la famiglia, e gli amici di sempre per venire da te e viverti come da anni oramai speravo.
Ho scelto con convinzione che la modalità sarebbe stata un servizio, non uno qualunque, ma un Servizio Civile. Sì, perché per definizione esso implica che alla base del “fare” ci sia prima di tutto un rapporto umano, civile appunto, fatto di rispetto e di conoscenza reciproca.
A distanza di un anno mi ritrovo a parlare la tua lingua, a cucinare i tuoi cibi, a condividere le tue tradizioni e a spiegarle a chi ti vive per la prima volta. Mi ritrovo ad apprezzare anche le tue contraddizioni, a saper stare ai tuoi tempi lenti senza l’ansia del tutto e subito, ad accettare l’imprevisto e la regola che non ci sono regole che definiscono la tanto ricercata “normalità”, bensì un insieme di situazioni in cui “normale” è sentirsi bene con sé stessi in relazione all’altro e, lasciamelo dire, a quel punto, che importa se siamo “normali” o meno? Semplicemente siamo e va bene così.
Devo ammettere che mi hai accolta con un po’ di diffidenza. Non sempre sei stata chiara, diretta e quindi facile da decifrare. Ti sei nascosta dietro i colori dei tuoi paesaggi che ho visto mutare con il variare delle stagioni, ma il tuo animo è rimasto lo stesso: burbero ma benevolo, operoso ma non troppo, accogliente ma solo con chi si sa adattare. Sei fatta così, ti dai veramente solo a chi sa gioire delle tue chiacchiere davanti ad una kafa anche quando non ci sarebbe tempo, a chi con una stretta di mano decisa sa chiederti “šta ima” (che c’è/che succede?) anche quando non c’è nulla da dire, a chi sa fidarsi dei tuoi silenzi e diffidare di quell’apparenza che tanto sembri osannare. E’ tramite le piccole cose, quindi, che abbiamo trovato la “chiave” giusta, quella che mi ha fatto percorrere le tue strade sentendomi come a casa.
Volendo essere del tutto sincera con te, devo ammettere, però, che solo tornando a casa, in quella natale, ho capito davvero cosa ha significato per me questo anno di Servizio Civile.
Al mio rientro tutto mi è sembrato immutato, la quotidianità che avevo lasciato era sempre lì ad aspettarmi, pronta a fagocitarmi di nuovo, ma questa volta quello che “lei” non sa è che sono io ad essere diversa, o meglio a vederla con altri occhi.
A poche ore dal mio arrivo ero già a piedi scalzi sui sassi del cortile di casa a rincorrere il gatto. Ti starai chiedendo: “che c’è di strano”? Erano anni che non camminavo scalza sui sassi. E’ bastato un gesto tanto semplice per sgrovigliare la complessità che mi stava appesantendo. Il senso sta, quindi, nella libertà che mi sento addosso, nell’entusiasmo con cui ho voglia di approcciarmi alle situazioni e nel dare importanza a ciò che suscita emozioni, indipendentemente da ciò che pensano “gli altri”.
“If nothing matters, there’s nothing to save” scrive l’autore americano Jonathan Safran Foer in “Eating Animals” (2009). Qualcosa che conta c’è sempre, ed è quel qualcosa per cui vale la pena rimboccarsi le maniche. Grazie per avermelo ricordato tanto spesso in questo anno draga moja (mia cara). Sad idemo dalje (ora andiamo avanti).
Bihać, 29/08/2016
Sara Facciani