Intramontabile Placido Domingo ne I due Foscari

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I due Foscari di Giuseppe Verdi Fotografie Brescia e Amisano © Teatro alla Scala.

Fotografie Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

L’opera di Giuseppe Verdi in un nuovo allestimento al Teatro alla Scala   

Non si sa quale sia la reale età di Placido Domingo, ma i settantacinque anni, quelli dichiarati come ufficiali, sono già compiuti e coronano una carriera di cantante (senza tenere in considerazione quella di direttore d’orchestra) che ha il carisma dell’eccezionalità, sia per l’eterogenea vastità del repertorio, sia per la volontà di passare, nella parabola finale del suo percorso artistico, dalla corda di tenore a quella di baritono. In quest’ultima veste, Domingo si è avvicinato a diversi ruoli baritonali verdiani, fra i quali il doge Foscari ne I due Foscari che il Teatro alla Scala ha messo in scena per lui in un nuovo allestimento.
Inutile sprecare lodi o abbandonarsi, all’opposto, a riserve che non avrebbero senso dinanzi ad un artista che non vuole rassegnarsi al trascorrere del tempo, anzi lo vuole sfidare convinto di non dover mai porre la parola fine ad una carriera che ha già l’alone della leggenda. E non si può nascondere che dinanzi a certe frasi (una fra molte, quella del secondo atto, “Sarò Doge nel volto, e padre in core”), intonate con commossa adesione espressiva alla verità di un personaggio sempre in bilico fra ragion di stato e amore paterno, l’”immortale” Placido riesca ancora a sferrare la zampata leonina che lo fa essere sempre e comunque, ad onta dell’inevitabile affaticamento vocale, padrone della scena come oggi pochi sanno essere.
Resta da chiedersi se questa coda di carriera sia vera gloria o, più semplicemente, celebrazione di se stesso e della sua immagine di cantante al quale il pubblico perdona comprensibilmente tutto. Alla fine si finisce per ammirarlo senza porsi tanti dubbi, certi di trovarsi dinanzi ad uno degli ultimi grandi divi della scena lirica mondiale, ad un pezzo di storia dell’interpretazione operistica dei bei tempi passati che sopravvive, con un velo di inevitabile malinconia, alla sua stessa arte.

Al suo fianco la Scala schiera una compagnia di canto più promettente sulla carta che negli effettivi risultati, perché Francesco Meli, tenore lirico della voce bellissima e dal fraseggio superlativo, fatica talvolta a reggere il peso di un ruolo, quello di Jacopo Foscari, che richiederebbe maggior robustezza vocale. Anna Pirozzi, alle prese con l’impervia parte di Lucrezia Contarini, mostra alcune durezze in acuto, ma si conferma, al di là della resa interlocutoria, soprano italiano fra i più interessanti oggi in circolazione.

Sul podio dell’orchestra scaligera c’è l’ispirata bacchetta di Michele Mariotti, originale perché regala un Verdi giovanile “nuovo”, consapevole della lezione belcantistica ottocentesca ben coniugata con il più scontato trasporto della tipica retorica risorgimentale verdiana.

Resta da riferire del nuovo spettacolo, firmato da Alvis Hermanis, davvero bizzarro, colmo di citazioni pittoriche colte nella profusione di sipari e fondali a proiezioni illuminati dal chiarore di luci giallognole, con la scena spesso invasa da statue di leoni di San Marco e da mimi che si muovono come burattini. Il tutto offre l’immagine di una Venezia dogale che, nelle intenzioni del regista, dovrebbe apparire onirica, ma non lo è, perché nell’evidenza figurativa pare uscita da un opuscolo pubblicitario turistico, senza quei chiaroscuri che dovrebbero invece dare l’immagine delle buie stanze cospiratorie del potere nella Serenissima di metà Quattrocento.
Applausi, qualche dissenso alla prima, ma ennesima consacrazione per Domingo.