Si svolgerà a Taranto dal 21 al 24 ottobre la 49° edizione delle Settimane sociale dei cattolici italiani, intitolata “Il pianeta che speriamo- Ambiente, lavoro e futuro”, dopo un lungo lavoro preparatorio che è stato reso difficoltoso dalla pandemia. In un certo senso, il fatto che la Settimana sociale possa svolgersi regolarmente e in presenza è già di per se stesso un sintomo del complesso percorso di rinascita che il nostro Paese, e la Chiesa italiana con esso, sta intraprendendo.
Le Settimane sociali, in Italia come in altri Paesi europei, hanno scandito la storia del movimento cattolico nel suo complesso confronto con la modernità, a partire dalla prima che si svolse nel 1907 a Pistoia, tentando di fare sintesi fra le indicazioni magisteriali e il complesso delle attività sociali che già si stavano organizzando nel campo della cooperazione, della mutualità, degli studi , mentre rimaneva sottotraccia la questione dell’organizzazione politica, prima per la permanenza dell’anacronistico “non expedit” e poi per l’opprimente peso della dittatura fascista, che dopo il 1934 impose uno stop alla celebrazione delle Settimane stesse. Non è un caso che quella successiva abbia potuto svolgersi solo nell’ottobre 1945 a guerra finita, a Firenze, con l’ambizioso titolo “Costituzione e costituente”, radunando gran parte di coloro che da lì ad un anno sarebbero effettivamente stati fra gli elaboratori della Costituzione come esponenti della Democrazia Cristiana.
Da allora in poi le Settimane sociali accompagnarono il percorso del nuovo protagonismo sociale e politico dei cattolici, nel quale si collocavano anche le ACLI, i cui principali dirigenti furono spesso fra i relatori delle varie edizioni che si susseguirono prima a cadenza annuale e poi in maniera più irregolare, fino ad interrompersi completamente dopo la XL edizione svoltasi a Brescia nel 1970. D’altro canto, il Concilio aveva ridefinito le direttive dell’insegnamento sociale della Chiesa, e l’esplodere della contestazione a livello sociale ed anche ecclesiale, accompagnato dall’indebolimento dell’associazionismo tradizionale, dall’irrompere dei nuovi movimenti la cui presenza era spesso causa di tensioni interne alle varie Diocesi e alla Chiesa italiana nel suo complesso, e dal venir meno del legame collaterale con la DC sebbene esso venisse costantemente richiamato dall’Episcopato nei suoi appelli elettorali. In tale contesto le Settimane sociali venivano percepite come uno strumento ormai superato.
La ripresa delle Settimane sociali si ebbe nel 1991 , nell’intervallo fra la caduta delle dittature comuniste dell’Europa orientale e lo sconvolgimento di Tangentopoli, quando sembrò alla Gerarchia ecclesiastica di poter tirare le fila sia della normalizzazione della dialettica interna alla comunità ecclesiale, spesso perseguita con metodi abbastanza bruschi, sia di un nuovo collateralismo verso la DC, ignorando che di lì ad un anno il sistema politico chiamato della Prima Repubblica sarebbe stato delegittimato dalle indagini che scoperchiarono un diffuso malaffare.
Da allora in poi, e soprattutto all’indomani del terzo Convegno della Chiesa italiana svoltosi a Palermo nel 1995, le Settimane sociali sarebbero state parte del complessivo disegno ecclesiale, sociale e politico del cardinale Camillo Ruini, Presidente della CEI, che prendeva atto del pluralismo politico dei credenti, ma invece di investire sull’autonomia dei laici in politica pretendeva in qualche modo di guidarlo attraverso l’imposizione di un’agenda dettata dall’alto che arieggiava il modello del “patto Gentiloni”, ossia l’accordo del 1913 in base al quale i cattolici si impegnavano a votare per i candidati liberali in cambio di una serie di concessioni in materia di scuola, di opere economiche o di costumi. Ciò in tutta evidenza negava alla radice qualsiasi autonomia di elaborazione politica dei credenti, forzava le realtà associative ad un unanimismo fittizio e di fatto , nel quadro bipolare che anche Ruini condivideva, spingeva alla marginalità i cattolici impegnati nel centrosinistra poiché la destra appariva più disponibile nei confronti di un’agenda che poneva sistematicamente in secondo piano le questioni sociali propriamente dette.
E tuttavia, quel modello è evaporato senza lasciare tracce, in primo luogo perché era interamente giocato sull’attualità di un sistema che è andato logorandosi progressivamente, in secondo luogo perché non aveva radici, dal momento che veniva concepito in termini puramente impositivi rispetto ad una “base” a cui si chiedeva soltanto obbedienza passiva e che a sua volta ricambiava con l’indifferenza.
La questione che si pone oggi è in che misura questo appuntamento, che rimane importante come aggiornamento della cultura politica e sociale dei cattolici e per l’attualizzazione dell’insegnamento sociale così fortemente voluto da papa Francesco, sia anche un elemento di mobilitazione sia riguardo alle tematiche di maggiore interesse a livello globale, che richiedono una lettura sapienziale e lungimirante, sia nel percorso sinodale che la Chiesa italiana ha appena iniziato e a sua volta implica un ripensamento delle priorità dell’azione pastorale e dei ruoli ministeriali nel contesto di una comunità che per molto tempo ha pensato di poter essere una felice “eccezione” nel quadro del generale processo di secolarizzazione che attraversa tutto il Nord del mondo, salvo scoprire che non era così e che anzi il processo è fortemente avanzato anche da noi.
Peraltro, i cattolici sono ancora una presenza reale e sistematica all’interno del nostro Paese, e proprio le tematiche affrontate dalla Settimana – che sono in sostanza quelle della transizione ambientale e dello sviluppo sostenibile (ed è sintomatica la scelta di Taranto, luogo simbolo delle storture di un certo modo di concepire lo sviluppo economico ed industriale), le quali a loro volta si portano dietro concrete istanze di giustizia sociale- dimostrano come nel corpo vivo della Chiesa italiana, delle sue comunità e delle realtà associative che la innervano (ACLI comprese, spesso in prima fila) vi sono autentici laboratori di buone pratiche diffuse che inevitabilmente implicano una ricaduta di ordine politico per la quale non vi sono al momento interlocutori adeguati.
D’altro canto, nel suo testo programmatico Evangelii gaudium papa Francesco ha scritto chiaramente che “il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. […] Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di san Francesco di Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. […] la Chiesa «non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”.
E’ chiaro che queste parole implicano un appello alla riflessione, al discernimento e all’azione, e se è chiaro che le scelte dei credenti non impegnano la Chiesa, altrettanto chiaro è che non necessariamente tali scelte debbano essere individuali e soggettive. Anche perché si deve comunque misurare l’agibilità degli spazi politici al di là degli omaggi verbali che non costano nulla , sapendo che la politica istituzionale presto o tardi verrà chiamata ad esprimersi su campi della vita umana che non sono quelli cui tradizionalmente ci si riferisce – e anzi questo accade già.
Per questo sarà importante valutare le idee che emergeranno a Taranto e le loro ricadute nel vissuto delle nostre comunità.