La cena delle beffe di Umberto Giordano si ricorderà come uno degli spettacoli più belli visti sul palcoscenico del Teatro alla Scala negli ultimi anni. Un allestimento che la regia di Mario Martone firma, con il supporto delle magnifiche scene di Margherita Palli e degli efficaci costumi di Ursula Patzak, per andare al cuore drammatico di una vicenda resa cruda e vera da questa nuova messa in scena, seppur sganciata dalla cornice rinascimentale del dramma di Sem Benelli immortalata dalla famosa versione cinematografica che Alessandro Blasetti girò nel 1941 con attori del calibro di Amedeo Nazzari, Clara Calamai e Osvaldo Valenti.
La rivalità fra Giannetto Malespini e i fratelli Chiaramantesi, ambientata nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, viene trasportata all’epoca dei boss della mafia italo-americana, nella Little Italy newyorkese, in un clima dove i contrasti fra quelle che qui divengono due bande rivali si declinano attraverso i temi della violenta sopraffazione, della sensualità torbida e virilmente maschilista. E non infastidisce l’arbitraria scelta registica del finale, quando Neri, alla vista del cadavere del fratello, invece che impazzire veramente dopo esser stato creduto per tutta l’opera fuori di senno, contribuisce, con la complicità di Lisabetta, alla strage di tutti i suoi rivali, Giannetto compreso, uccisi a mitragliate in puro stile mafioso mentre lui si vendica dell’infedele e frivola Ginevra accoltellandola.
Il mastodontico impianto scenico a tre piani (il ristorante di un boss dove avviene la famosa cena, la camera da letto di Ginevra e il sotterraneo dove viene torturato Neri) scorre in verticale alla vista del pubblico rivelando di volta in volta gli ambienti della vicenda, così da farle assumere l’immagine di una storia di violenza e sopruso che rende addirittura più forte ciò che la musica in sé non possiede.
Perché se Giordano abbandona in quest’opera la consueta vena melodica del verismo propria alle sue precedenti opere, come Andrea Chénier e Fedora, nella Cena delle beffe elabora un linguaggio musicale nuovo, drammaticamente parossistico, cercando tinte espressioniste non risolte perché la linea della musica e del canto è invece tutta rivolta a dar sostanza teatrale truculenta alle ragioni del fatto scenico di tradimento e vendetta che si vuole rappresentare, con una forza cinematografica che la direzione di Carlo Rizzi coglie meravigliosamente. Lo fa attraverso una cura dei dettagli che finisce per galvanizzare anche l’eccellente compagnia di canto.
Spicca su tutti il Neri Chiaramantesi di Nicola Alaimo, baritono che riesce a costruire un personaggio perfetto, evitando la vena vocale bieca e torva a senso unico per illuminare dove occorre la liricità e facendo dimenticare, grazie all’intelligenza espressiva che alterna enfasi a sarcasmo, di non possedere il tonnellaggio vocale (dinanzi a tanta maestria poco importa) che il ruolo richiederebbe. Non gli è da meno Marco Berti, Giannetto Malespini, chiamato a risolvere le difficoltà di una vocalità stentorea che non concede mai un attimo di sosta al tenore, qui risolta con incisiva e vibrante tensione emotiva. Meno efficace Kristin Lewis, Ginevra più frivola che sensuale. Eccellenti tutti gli altri componenti la lunga locandina di interpreti, fra i quali piace citare Leonardo Caimi, Gabriello Chiaramantesi, Luciano Di Pasquale, il Tornquinci, Bruno De Simone, il Dottore e Jessica Nuccio, Lisabetta di sapida liricità.
Successo pieno per il ritorno di un’opera la cui prima assoluta ebbe luogo proprio alla Scala, il 20 dicembre 1924, con Arturo Toscanini sul podio.
Fotografie: Brescia e Amisano © Teatro alla Scala