La guerra in Ucraina e il ruolo del Movimento per la pace

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La guerra russo-ucraina, pur non essendo l’unica attualmente in corso, ha colpito particolarmente l’opinione pubblica europea per la vicinanza ai confini dell’UE e per l’evidente brutalità dell’azione russa, che ha prodotto una condanna pressoché generalizzata di questo atto di aggressione.

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L’aggressione della Russia all’Ucraina ha aperto una serie di questioni di ordine politico e morale, che interrogano in modo angoscioso ognuno di noi, ed in particolare coloro, che come gli aclisti, da molti anni si sono consapevolmente collocati all’interno di quello che si può definire il movimento per la pace, definizione omnicomprensiva che sta ad indicare un insieme di forze sociali, sindacali, associative che operano per trasformare in proposta concreta l’aspirazione diffusa per la pace, partendo dai valori propri della nostra Costituzione e dai documenti internazionali che il nostro Paese ha sottoscritto, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Per i credenti, poi, la guerra costituisce una sfida ancora più grande, come dimostra l’evoluzione sempre più stringente del magistero ecclesiastico e della prassi pastorale, che progressivamente ha ristretto i confini della cosiddetta “guerra giusta” , già dichiarati inapplicabili da un rigido custode della dottrina come il cardinale Alfredo Ottaviani nel mutato contesto dell’era nucleare. Soprattutto, la questione della pace va sempre più connessa con quella della salvaguardia del creato nel contesto ecumenico, secondo l’intuizione del card. Carlo Maria Martini che co-presiedette l’assemblea ecumenica svoltasi nel 1989 a Basilea incentrata proprio su tali argomenti. Il 1989 fu anche l’anno del crollo del Muro di Berlino, simbolo della Guerra fredda e della divisione politica e militare dell’Europa, che aprì il cuore di molti alla speranza di un superamento dell’equilibrio del terrore verso una società più libera e più giusta, che purtroppo venne quasi subito delusa.

La guerra russo-ucraina, pur non essendo l’unica attualmente in corso, ha colpito particolarmente l’opinione pubblica europea per la vicinanza ai confini dell’UE e per l’evidente brutalità dell’azione russa, che ha prodotto una condanna pressoché generalizzata di questo atto di aggressione. Le divisioni, ovviamente, sono intervenute subito dopo sulla questione della modalità con cui opporsi alla guerra, con l’ONU messa fuorigioco dal fatto che il Paese aggressore è anche uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, che esercita il suo diritto di veto (con il supporto della Cina) all’interno del vero organo deliberante del Palazzo di Vetro. I punti focali, oltre alla possibile partecipazione diretta dei Paesi della NATO al conflitto (che allo stato non sembra essere all’ordine del giorno) , sono quelli del sostegno alla resistenza del Governo e dell’esercito ucraini anche attraverso la fornitura di armi e la pesantezza delle sanzioni economiche contro la Russia onde fiaccare il suo potenziale bellico e spingere se non alla rivolta almeno alla critica aperta contro il Governo l’opinione pubblica.

La prima sfida che si pone al movimento per la pace è, per quanto paradossale possa sembrare, è quella di pensare la guerra, ossia di coglierne le cause, le dinamiche, la logica interiore: se si guarda alla storia dell’umanità si vede quanto essa sia attraversata dalla guerra come attività spesso ordinaria per la risoluzione delle controversie fra i vari potentati, amplificazione della modalità spesso violenta con cui i singoli risolvevano le loro controversie personali in assenza di un potere statuale (il quale anzi fu il prodotto del tentativo di assoggettare le controversie personali ad una più alta autorità tutoria). Vengono in mente i versi del Manzoni nel finale dell’”Adelchi” : “una feroce forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto : la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e ormai la terra altra messe non dà”.

Questa feroce forza è ineliminabile in quanto profondamente connaturata all’animo umano, ed in termini religiosi si potrebbe guardare ad essa come ad un frutto della colpa originale. Essa tuttavia può essere frenata, controllata, incanalata, e questo appunto è il compito della politica, che deve porre un ordine nel disordine delle passioni e degli interessi umani. Ma per fare questo servono veramente poco gli appelli generici, irenistici ed ingenui nel senso più deleterio di queste parole, staccati dagli avvenimenti concreti o, peggio ancora, inquinati da pregiudizi ideologici che fanno vedere il male sempre da una parte ed impediscono quella visione spassionata dei problemi sul tappeto che è la premessa per ogni soluzione che non sia semplicemente una costruzione fantastica.

Questa prima prova, occorre dirlo, il movimento per la pace italiano non l’ha passata, perché in queste settimane si sono visti riproporre troppi schemi del passato, troppi riflessi condizionati, una scarsa conoscenza delle ragioni di fondo dei diversi contendenti ed una totale incomprensione delle motivazioni che spingono gli aggrediti a resistere agli aggressori nel momento in cui, fra l’altro, autorevoli voci religiose e non solo ricordano che il diritto alla resistenza è in tutto e per tutto moralmente lecito e talvolta necessario e cogente.

Da ciò discende anche la difficoltà a proporre misure realistiche per affrontare la crisi presente che vadano oltre la pura e semplice riproposizione dell’istanza etica, che è sì necessaria ma deve essere applicata alla situazione concreta.

Si prenda ad esempio la questione della difesa popolare (o civile) nonviolenta, ossia, in sostanza, la resistenza nei confronti dell’invasore che utilizza tutti gli strumenti di boicottaggio attivo e passivo con il solo vincolo del rifiuto della violenza. Vi sono molti esempi del passato che vengono utilizzati, a parte quello ovvio della lunga battaglia di Gandhi e dei suoi seguaci per l’indipendenza indiana, per continuare con alcuni episodi avvenuti nell’Europa occupata dai nazisti (quasi sempre tuttavia affiancati da movimenti di resistenza armata, ed anzi ad essi complementari). Molti studi sono stati fatti circa le modalità per organizzare la DPN superando lo scetticismo di chi ritiene irrealistico tale approccio, a partire dal classico studio del 1996 di Rodolfo Venditti. Recentemente alcune associazioni, fra cui la Rete italiana pace e disarmo hanno promosso un disegno di legge di iniziativa popolare per l’istituzione formale di un Dipartimento per la difesa civile nonviolenta. Certamente l’adozione sistematica del modello DPN implica da parte dei cittadini dei Paesi oppressi un investimento in termini di coraggio personale e di disponibilità al sacrificio non inferiore rispetto a quello dei combattenti in armi, e può sembrare improduttivo in quanto il lavoro di logoramento del morale del nemico (perché anche qui esiste un nemico, ovviamente, che va individuato come tale e battuto con strumenti diversi da quelli della resistenza in armi) , soprattutto se esso è espressione di un potere dittatoriale, è lungo e spesso frustrante per gli scarsi risultati raggiunti.

Il limite principale di queste proposte sta nel fatto che esse non sono mai riuscite a farsi progetto politico, rimanendo confinate all’interno di un dibattito settoriale spesso asfittico e comunque incapace di rapportarsi al grande pubblico e di inserirsi nelle più ampie riflessioni di ordine geopolitico che connotano questa fase storica. Ciò è dovuto non solo alle scorie ideologiche che il movimento per la pace si porta dietro, ma anche e soprattutto all’episodicità della sua stessa presenza, per cui ad eccezione di alcuni soggetti specializzati sembra sempre che tale movimento vada in letargo fra una crisi ed un’altra, essendo totalmente incapace di legare la sua riflessione con quella più ampia sulla transizione ambientale e sulle ineguaglianze sociali (so bene che alcuni sono in grado di farlo: ma finché la loro riflessione non diventa massa critica a livello di dibattito politico le loro riflessioni e proposte sono sostanzialmente irrilevanti), ed intervenendo nel momento in cui le crisi si sono già verificate e sembra non esservi altra soluzione che quella di dare la parola alle armi.

Si rende quindi necessario un diverso approccio politico al problema della pace che non escluda anche passaggi necessari in ordine alla rimodulazione del sistema di difesa, considerandolo come un’articolazione della più ampia panoramica della politica e sociale, magari riesaminando la questione di una difesa integrata europea come modalità di superamento delle forme di difesa del passato, chiedendo all’UE di farsi promotrice di una nuova Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea, mettendo all’ordine del giorno la progressiva riduzione, fino al completo ritiro, delle armi atomiche nel nostro Continente.

Insomma, si tratta di fare politica, ma di farla con realismo, sapendo chiamare le cose con il loro nome, trasformando, come ha scritto recentemente Emiliano Manfredonia,” l’aspirazione alla pace in occasione per ripensare l’organizzazione della società e dell’economia secondo criteri più equi, più giusti, più autenticamente a misura dell’essere umano”.

Solo così l’auspicio di papa Francesco di “cancellare la guerra dalla storia dell’uomo” potrà farsi traguardo concreto.