La mia Western Balkan Route, sulle orme dei migranti

La mia Western Balkan Route, sulle orme dei migranti email stampa

la scorsa settimana insieme agli amici e colleghi di Caritas abbiamo percorso al contrario una parte della Western Balkan Route. Quasi 3800 Km in 6 giorni, per cercare di capire e documentare quello che sta accadendo nel nostro continente da quest’estate ad oggi e poter raccogliere i bisogni di chi opera lungo questa rotta, cercando ogni giorno di aiutare decine di migliaia di persone in fuga da guerra, disperazione, fame. Un viaggio fatto per tornare sapendo cosa chiedere. Ma soprattutto cosa chiedersi.

2581
0
SHARE

[…]Ero stata a novembre 2015 presso il campo di transito di Slavonski Brod, in Croazia orientale, aperto a inizio mese. Ero rimasta positivamente colpita dal grado di efficienza di questo posto, dagli operatori che ci lavorano e dal buon clima tra polizia, volontari, operatori umanitari. In questo viaggio che si è spinto più in là ho capito che Slavonski Brod è probabilmente vissuta come la fine del viaggio, il posto in cui anche i rifugiati e migranti tirano un sospiro dopo giornate se non mesi ad affrontare l’ignoto.

Le folle di persone che spingono e urlano e non si fermano che ho incontrato a Gevgelija, al confine macedone-greco, che ho rivisto a Preševo, al confine serbo-macedone, avevano lo sguardo allucinato, la paura e il caos negli occhi. Paura di rimanere nella terra di nessuno, forse. Paura di essere respinti, forse. Paura di non arrivare in tempo in Europa, prima che l’Europa chiuda tutti i suoi confini. E quindi spingevano, camminavano, volevano andarsene da quei campi, in mezzo al nulla, vicino alle ferrovie. E poi, a Brod gli stessi visi, gli stessi abiti donati dalle organizzazioni e dai cittadini, ma la faccia distesa. Persone sedute su un treno in attesa del fischio che li porterà in Austria, finalmente. La fine del viaggio.

Il nostro percorso in auto durato solo 6 giorni ha fatto tappe a Dobova, Slavonski Brod, Šid e Adaševci, Belgrado, Preševo, Tabanovce, Gevgelija e Idomeni, Policastro. Saremmo andati giù giù giù fino ad Atene e poi Lesbo e la Turchia e Aleppo alla fine, se non fosse che a un certo punto uno si deve fermare. Lo stesso percorso che noi abbiamo fatto in pochi giorni dura a volte venti, trenta giorni, a volte mesi.

Dipende.

Da cosa? Dai soldi che si hanno, dai contatti con i trafficanti, dalla possibilità di avere notizie di chi è già oltre e ha superato le tappe e comunica con whatsapp e nei gruppi facebook per raccontare difficoltà e trucchi da seguire, dal clima, dalle frontiere aperte o chiuse, dagli scioperi di chi cerca di trarre profitto dalla situazione bloccando le strade, dal riuscire a rimanere uniti ai propri parenti o doverli aspettare di tappa in tappa, dall’essere ricacciati e poi riprovarci.

Insomma, dipende.

Così come dipende il grado di efficienza e l’organizzazione nei diversi „centri di transito“ come vengono chiamati. Infatti ufficialmente nessuno ha definito i numerosi e sempre più attrezzati spazi che si vanno costruendo sulla Balkan Route come „centri di accoglienza“. Bisogna anzi stare attenti a come si parla coi diversi interlocutori. Centri di transito. Il problema non sarà permanente, ufficialmente. Ufficialmente queste persone non si fermeranno in questi paesi.

Ossia: nessun governo dei paesi balcanici sta dicendo al suo popolo che c’è un (probabile?) accordo con l’UE (moneta di scambio?) per tenere i profughi  sul proprio suolo.

Ma in verità i posti letti aumentano. Come mai a Slavonski Brod che è solo luogo di registrazione e partenza ci sono 10.000 letti e si sta pensando a farli diventare 15.000? Perché la stessa cosa accade a Preševo? Che progetto c’è nel risanare un vecchio stabilimento a Šid per metterci migliaia di brandine?

maraone2ogni modo, finchè non si gioca a carte scoperte, il viaggio è stato una discesa agli inferi, via via che cambiavamo Stato e andavamo verso sud, ovvero verso l’origine della rotta, via via la situazione diventava più caotica, confusa e spaventosa. Nessuna scena orrenda, ma una tensione percepibile nelle persone, la paura di non arrivare (arrivare poi dove, mi chiedo io).

A Brod file ordinate e poche centinaia di persone sedute sul treno, scendendo più giù, fino a Policastro, gente a piedi nel fango, centinaia di bambini, fantasmi avvolti nelle coperte grigie degli aiuti umanitari. Persone costrette ad aspettare 3 o 4 giorni lungo l’autostrada, senza bagni, senza cibo, dormendo nei bus o nelle tendine da campeggio della Decatlon, con il vento che ti butta addosso aria gelata. L’unica cosa positiva per ora è che quest’inverno a differenza dei soliti inverni balcanici, è più mite del normale.

Migliaia di persone lungo la spina dorsale dei Balcani, il tutto sapendo che in Grecia ci sono già altre decine di migliaia sbarcate e altre decine di migliaia pronte al confine turco.

Numeri che fanno impressione, ma che non significano nulla per chi li legge e per chi ne fa statistiche.

– Le persone, non i numeri –

Noi abbiamo parlato con alcuni di loro, abbiamo sorriso ad alcuni bambini, bevuto il té con loro, semplicemente ci siamo scambiati uno sguardo, con un malcelato ottimismo abbiamo augurato loro buona fortuna, buona strada verso la Germania Inshallah!

Abbiamo incontrato persone determinate, spaventate, pronte a tutto, pur di andare via dal loro Paese, con la sofferenza di lasciarsi tutto e tutti alle spalle, ma senza nessuna alternativa. Centinaia di padri e madri che tenevano stretti i loro bimbi più piccoli, mentre quelli che sanno camminare corrono per non perdersi.

Ecco chi sono questi terroristi e criminali pronti a venire in Europa e sterminarci. Orde di bambini vestiti in modo buffo, con giacche di 3 taglie più grandi, uomini con la barba lunga sfatta da giorni e donne non truccate e non pettinate, che chiedono educatamente ai poliziotti di poter andare in bagno lasciando la fila.

Colpevoli solo di essere nati dalla parte sbagliata del mondo.

Il blog di Silvia Maraone (Nella terra dei Cevapi)