In termini puramente percentuali le elezioni politiche del 29 aprile in Spagna esprimono un sostanziale equilibrio fra le forze di sinistra (PSOE e Unidos Podemos), che si collocano all’incirca al 44% e quelle di centrodestra (Partido Popular, Ciudadanos e Vox) che invece sono circa al 43%. E’ una spaccatura simmetrica che di fatto si trascina da lontano, e che molto spesso ha assunto caratteristiche di drammaticità e di tragedia di cui la guerra civile del 1936/1939 è stata la rappresentazione più plastica, con un carico di orrori e di efferatezze che coinvolse ambedue le parti in causa.
Era il clima in cui, come ebbe ad esprimersi Adolfo Suarez, l’artefice della transizione alla democrazia insieme al re Juan Carlos, “media Espana quiere matar otra media”, e che di fatto avrebbe potuto ripresentarsi tal quale alla morte del caudillo Francisco Franco, che governò la Spagna come se fosse un accampamento militare per quasi quarant’anni, se non vi fosse stato da parte del nuovo sovrano, degli esponenti più riformisti del regime e delle forze di opposizione uscite dalla clandestinità uno sforzo straordinario per dare vita ad un percorso di rottura con il passato che ha permesso allo Stato iberico di approvare nel 1978 la Costituzione più democratica (e fin qui la più duratura) che abbia mai avuto e di far fronte al colpo di coda dei nostalgici del regime che nel febbraio 1981 portò al famoso tentato golpe del tenente colonnello Tejero.
Tornando al risultato elettorale, la distribuzione dei seggi non rispecchia esattamente le percentuali dei singoli partiti, in quanto la legge elettorale vigente per il Congresso dei Deputati (la camera bassa delle Cortes, l’unica abilitata a dare o negare la fiducia ai Governi) è sì di natura proporzionale, ma è un proporzionale, per così dire, a collo di bottiglia, che favorisce da un lato i partiti di rilievo nazionale e dall’altro quelli a forte radicamento territoriale.
In ogni caso, il dato della vittoria dello PSOE è evidente, così come è evidente la disfatta dei Popolari (- 15,9%), che pagano la diffusa corruzione fra i loro quadri e l’incertezza nel governare le rivendicazioni indipendentiste catalane, come pure quella di Podemos (- 7%), che a sua volta paga la difficoltà di uscire da un’astratta fraseologia pseudo rivoluzionaria per entrare nella quotidianità dell’esercizio della responsabilità di governo.
Il maggior problema di fronte a cui si trovano le forze politiche spagnole è certo quello della gestione delle rivendicazioni regionali, a partire da quelle del Paese basco (Euzkadi) e della Catalogna, con la differenza che l’indipendentismo basco, dopo la sconfitta politica e militare dell’ETA (ormai degenerato in una banda di assassini senza prospettiva) , pare essere riassorbito nella gestione degli ampi spazi di autonomia locale garantiti dalla Costituzione e dallo Statuto, mentre in Catalogna, dopo i fatti gravissimi dell’autunno 2017, rimane forte la rivendicazione indipendentista che non è maggioritaria, ma condiziona pesantemente la dialettica politica sia catalana che spagnola.
L’incertezza dello statuto delle autonomie locali dipende dal fatto che esse non sono consacrate unicamente nella Costituzione, ma sono sottoposte ad una serie di accordi politici contrattati di volta in volta fra i Governi locali e quello di Madrid, e all’origine del rinfocolarsi delle tensioni in Catalogna vi è il rimangiarsi da parte del Governo nazionale del popolare Mariano Rajoy degli accordi che la Generalitat catalana aveva stabilito con il suo predecessore socialista Zapatero.
A loro volta, le rivendicazioni locali hanno prodotto dei contraccolpi nelle forze politiche nazionali: a sinistra, infatti, ha operato un vecchio riflesso derivante dal periodo della dittatura, quando, come ha detto brillantemente Javier Cercas “era proibito ogni nazionalismo che non fosse quello spagnolo”, e questo non solo rese difficile ad alcuni prendere una decisa posizione contro le azioni criminali dell’ETA, ma ha anche impedito che vi fosse una chiara condanna degli atti evidentemente incostituzionali del Governo catalano nel 2017.
A destra, invece, l’incertezza dell’azione dei Governi del PP ha prodotto due scissioni, la prima sul versante liberale, con la nascita di Ciudadanos, e l’altra su quello più francamente reazionario e neofranchista, con la nascita di Vox, e non è un caso che i leader fondatori dei due nuovi partiti, Albert Rivera e Santiago Abascal, siano originari delle due regioni più turbolente, catalano il primo e basco il secondo, e che abbiano avuto pesantissimi scontri con gli indipendentisti locali in nome dell’unità e dell’indivisibilità della Spagna.
Ora il pallino è in mano al PSOE e al suo leader incontrastato Pedro Sanchez, che qualche anno fa si era dimesso polemicamente dalla guida del partito, lo aveva riconquistato pensionando brutalmente i vecchi maggiorenti, era riuscito a scalzare dal Governo Rajoy mettendo in piedi un esecutivo monocolore minoritario con l’appoggio di Podemos e dei partiti regionali ed era stato costretto al chiedere al re Filippo VI lo scioglimento anticipato delle Cortes a causa dell’insistenza di alcuni partiti catalani sulla possibilità di ammettere il diritto alla secessione, che è fuori da ogni previsione costituzionale.
La sua indubbia capacità politica ed il prestigio che gli deriva dalla chiara vittoria elettorale dovranno confrontarsi sul modo in cui gestirà i due paletti che egli stesso ha pubblicamente fissato durante la campagna elettorale, cioè il rifiuto di alleanze sulla destra (che vuol dire in sostanza con i liberali di Ciudadanos) ed il parallelo rifiuto di alleanze con le forze incostituzionali (vale a dire gli indipendentisti catalani).
In ogni caso, il risultato elettorale spagnolo conforta tutti coloro che ritengono che non sia ineluttabile la crescita delle forze reazionarie ed antieuropeiste, e può essere un buon viatico per le elezioni europee del 26 maggio.