“Su di una collina, nei pressi di Biella, un gruppo di cristiani di diversa confessione ha occupato, da due anni, le poche casupole lasciate vuote dal piccolo nucleo di abitanti migrati in città. Sono case per modo di dire: il vento fischia fra le fessure e la nebbia che le avvolge sembra quasi dipanarle e portarsele via. Non c’è nemmeno la luce elettrica. C’è la fede paradossale di questi amici che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il cristianesimo di domani”.
Così, alla data del 1 gennaio 1970, Ernesto Balducci iniziava un suo foglio di diario, l’ultimo fra quelli che poi avrebbe raccolto e pubblicato per Vallecchi sotto il titolo di “Diario dell’Esodo”, e che coprivano un decennio cruciale (1960-1970) per la storia della Chiesa e del mondo..
Anche se l’illustre teologo fiorentino non faceva nomi di persone e riferimenti geografici più chiari è evidente dal contesto che egli si riferiva alla nascente Comunità di Bose raccolta intorno all’intuizione veramente profetica di Enzo Bianchi che in quei luoghi si era ritirato fin dall’8 dicembre 1965, giorno di chiusura dell’ultima sessione del Concilio Vaticano II.
L’occasione era il raduno dei cosiddetti “gruppi ecclesiali spontanei” che si andavano creando nella Chiesa in quel periodo di grande fervore e che animavano quella che già veniva chiamata la “contestazione ecclesiale”: due mesi erano passati dall’ “autunno caldo” nelle fabbriche italiane , uno dallo scoppio della bomba di piazza Fontana.
Dai dialoghi di quella giornata, di quel Capodanno così insolito, Balducci trasse l’impressione che “il cristianesimo sia di nuovo sul punto in cui gli si aprono dinanzi tutte le possibilità, cioè in quel punto che permette al non credente di constatare l’agonia del cristianesimo e al credente la sua nascita (…) Insegni la Chiesa quel che deve insegnare: l’importante è che la coscienza in ascolto riesca a vivere in quel punto tra morte e vita, tra essere e non essere. La Chiesa rinasce dalle fondamenta nel momento in cui muore a se stessa”.
Ignoro quali siano stati successivamente i rapporti fra Balducci e Bose nei ventidue anni che rimanevano da vivere al religioso scolopio, ma il dato di fatto è che la prospettiva di rinnovamento che essi condividevano in assoluta sincerità in quel fervido Capodanno si è ad un certo punto divaricata, nel senso che Balducci , che pure non rinunciò mai alla riflessione teologica e alla dimensione sacerdotale, spostò sempre più il baricentro della sua azione su di un versante più nettamente politico, mentre Bose è andata caratterizzando progressivamente la propria dimensione monastica, recuperando le grandi fonti del monachesimo occidentale ed orientale, aprendo al nuovo anche solo a partire dalla compresenza di monaci e monache sotto lo stesso tetto e mantenendo aperta la dimensione dell’accoglienza verso tutti i “cercatori di Dio” senza però farsi ingabbiare nella prospettiva della contestazione che, detto con il necessario rispetto per molte storie personali anche intense e dolorose, si è ad un certo punto inaridita nel cliché di una marginalità spesso ricercata e rivendicata rispetto al corpo vivente della Chiesa.
E tuttavia il brano di Balducci, il primo, credo, in cui un autore noto al grande pubblico parlava della nascente esperienza bosina, serve a misurare la distanza fra la scintilla e la fiamma oppure, per dirla con Alberoni, fra il movimento e l’istituzione, o, in termini religiosi, fra la vocazione intesa come chiamata originaria e spesso entusiasmante e la professione, ossia l’applicazione della vocazione ad una quotidianità di obblighi e di convivenze spesso faticosi e talvolta insopportabili.
Ciò a maggior ragione a distanza di pochi mesi dal doloroso distacco, avallato dalla Santa sede, consumatosi fra la Comunità ed il suo fondatore, dopo che nel corso degli anni l’uno e l’altra erano diventati un punto di riferimento per molti credenti e non credenti, con un’esposizione mediatica evidente e forse eccessiva, e comunque con una ricchezza di doni spirituali che non possono essere dispersi da questa tempesta. Oltretutto, il fatto che l’allontanamento di Enzo Bianchi non dipenda da problemi dottrinali o da squallide questioni “de sexto” , ma dall’esaurimento del rapporto fra il fondatore e la Comunità che egli ha fondato dimostra anche la difficoltà di convivenza non tanto con il carisma quanto con la persona del fondatore stesso, che trova antecedenti illustri nella storia del cristianesimo a partire dallo stesso Francesco d’Assisi, che al momento della sua morte non si riconosceva pienamente nello sviluppo che l’Ordine minorita aveva preso negli ultimi anni della sua vita (e a dirla tutta il Poverello non intendeva minimamente fondare un nuovo ordine religioso, e il primo progetto di Regola che scrisse non venne “bollato” dalla Santa sede).
Ma, appunto, il carisma, l’intuizione originaria che è alla base di ogni movimento deve essere distinto dalla persona fisica che ne è il primo portatore, non solo per la caducità della natura umana ma per poterlo portare ed inverare nel volgere degli anni anche quando il mondo in cui avvenne l primo manifestarsi di tale carisma e il mondo contemporaneo appare quasi insormontabile. E poiché nella realtà attuale i cambiamenti si fanno sempre più vorticosi e rapidi, la Bose del 1965 non può essere la stessa che Balducci incontrò nel Capodanno del 1970 e men che meno quella attuale, anche se vi è una parte incedibile del suo carisma che non è venuta meno nonostante i necessari cambiamenti ed adeguamenti che si sono resi necessari nel corso del tempo.
Ovviamente quello che vale per Bose vale per qualunque realtà interna ed esterna alla Chiesa, e rimanda al dualismo fra il nucleo di credenze e di valori che è alla base della vocazione di una persona o di un gruppo di persone e il loro successivo sviluppo, tenendo conto che gli esseri umani sono immersi nella storia e si adattano alla sua evoluzione, cercando nello stesso tempo di condizionarla per quanto è in loro potere.
Il compito del credente, qualunque sia la sua condizione, è quindi quello di scoprire e vivere la sua vocazione, che avrà sempre una scintilla di originalità che la distinguerà da tutte le altre, per quanto ordinaria possa apparire la sua esistenza, ed inverarla in una quotidianità spesso avara e per nulla esaltante. Non mancheranno gli errori , le contraddizioni, i limiti e le cadute, ma non saranno essi a dire l’ultima parola.