Le comunità locali per il Bene Comune e lo Sviluppo Sostenibile

Le comunità locali per il Bene Comune e lo Sviluppo Sostenibile email stampa

3476
0
SHARE

 

Le Acli Milanesi hanno partecipato con una delegazione dal 9 al 10 settembre a Velehrad al seminario internazionale di EZA, la rete europea di associazioni e sindacati cristiani d’Europa, di cui fanno parte, tra gli altri, la Kap per la Repubblica Ceca, la Kab per la Germania, Solidarnosc per la Polonia. L’incontro ha approfondito il tema del ruolo dei sindacati e delle altre parti della società civile nell’applicazione dello sviluppo sostenibile.

Per le Acli Milanesi è intervenuto Paolo Ricotti su “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile – il ruolo delle comunità locali e delle organizzazioni della società civile”. Nel suo intervento, che riproponiamo di seguito integralmente, Ricotti ha illustrato come è nato e si è sviluppato il concetto di sviluppo sostenibile e il percorso che ha portato all’individuazione dei 17 Obiettivi del Millennio e inseguito agli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile.

Negli ultimi decenni si è manifestata in modo estremamente palese la non sostenibilità di un modello sociale ed economico, oltre che ambientale. Oggi il divario tra ricchi e poveri è maggiore di quanto non fosse trenta anni fa e la novità è che la crescita del divario non solo tra Paesi ma all’interno dei singoli Paesi è divenuto il fenomeno principale dell’ultimo decennio che ridisegna una geografia della povertà e della diseguaglianza. Eppure è da tempo che concetti quali sostenibilità, sviluppo umano, giustizia sociale sono entrati nel nostro vocabolario.

Il concetto di sviluppo sostenibile nasce (rapporto Bruntland 1987) originariamente connesso in maniera esplicita al tema del tempo: “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere le possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.” (WCED 1987)

Il concetto di sostenibilità è legato strettamente al concetto di limite: rappresenta la presa di coscienza del fatto che le risorse del Pianeta non sono infinite e non sono del tutto rinnovabili. Questo limite tiene conto non solo della disponibilità immediata ma anche del rapporto con le generazioni future.

Ciò determina un cambio di pagina e di prospettiva non scontato, poiché la storia dell’umanità è sempre stata attraversata da un anelito di progressiva conquista di spazi ma anche di progressivo aumento delle risorse offerte dal Pianeta: la filosofia di fondo deve cambiare e passare da una logica espansiva (che non si preoccupa degli effetti distorsivi nell’impiego delle risorse e nella distribuzione di esse) ad una logica redistributiva che deve per forza di cose basarsi su equilibrio ed equità tra e all’interno delle generazioni che popolano il Pianeta.

Parallelamente, nella seconda metà degli anni Ottanta, prende sempre più forma l’idea che lo sviluppo di un Paese non coincide esclusivamente con la crescita del suo PIL e che il benessere di una popolazione non è perseguito esclusivamente attraverso l’accumulazione di beni. Il primo Rapporto UNDP sullo Sviluppo Umano risale al 1990: il fine dello sviluppo è la libertà delle persone da perseguire non solo attraverso la ricchezza materiale ma anche attraverso l’istruzione e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone.

Questo nuovo filone di pensiero rappresenta una grande novità se si pensa che fino ad allora il modello di sviluppo dominante si basava esclusivamente sulla crescita economica.

Oggi, dopo quasi trent’anni da quella prima definizione di sostenibilità, siamo di fronte ad un nuovo fermento sia nella ridefinizione teorica del concetto di sviluppo sia, e soprattutto, nella sua sperimentazione pratica.

L’enciclica “Laudato Si’” è destinata senza dubbio a diventare una pietra miliare del cammino dell’umanità. Il documento esplicitamente  richiama alla necessità di un approccio più interdisciplinare: “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura..” (Laudato Si’, n.139)

Il concetto di “ecologia integrale” «… che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali.» Laudato Si’, n.137) è una sintesi moderna e necessaria di diverse tensioni positive che hanno attraversato la società civile che si è ritrovata a fronteggiare gli effetti nefasti di una globalizzazione senza regole.

Sul piano internazionale è senza dubbio interessante che anche le Nazioni Unite, dopo il percorso degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio che avrebbero dovuto portare allo sradicamento della povertà entro il 2015, abbiano ritarato il loro piano di intervento mettendo in campo da una parte un approccio olistico, con il passaggio dagli 8 obiettivi da raggiungere entro il 2015 ai 17 entro il 2030 e allargando lo spettro delle attività, dall’altra un approccio multilivello, che affianchi al ruolo degli Stati anche quello degli enti e delle comunità locali.

I 17 Obiettivi sono supportati da 169 target che specificano ulteriormente le mete da raggiungere e dovrebbero facilitarne la misurazione. Il condizionale è d’obbligo perché rimane comunque l’incognita dell’affidabilità e della reperibilità dei dati. L’altro aspetto di cui rendere merito all’agenda post 2015 è la maggiore qualificazione degli Obiettivi.

Ne sottolineiamo alcuni: l’istruzione universale deve essere di qualità, inclusiva ed equa (obiettivo 4), la crescita economica inclusiva e sostenibile (obiettivo 8), le città resilienti e sostenibili, le istituzioni efficaci, trasparenti ed inclusive (obiettivo 11), l’industrializzazione inclusiva e sostenibile (obiettivo 9), è necessario puntare a ridurre le diseguaglianze tra i Paesi ma anche all’interno dei Paesi (obiettivo 10), garantendo modelli di produzione e consumo sostenibili (obiettivo 12).

Mai prima dell’avvento di questi obiettivi, i termini “sostenibile” e “inclusivo” sono stati usati così spesso in ambito ONU.

Scorrendo la lista dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (http://www.globalgoals.org ) e confrontandola con quella degli MDGs (http://www.undp.org/content/undp/en/home/sdgoverview/mdg_goals.html ), balza subito all’occhio che oltre all’aspetto sociale, proprio degli MDGs, l’agenda comprende anche il pilastro economico e quello ambientale, il che spiega il numero più che raddoppiato degli obiettivi. Una visione pluridimensionale che denota una maggiore volontà di tenere in considerazione la complessità del concetto di sviluppo sostenibile e di tracciare con maggiore precisione la strada da percorrere. La definizione di questa nuova agenda comporta inevitabilmente l’elaborazione di una nuova strategia per la sua implementazione.

La recente crisi economica ha esasperato ed evidenziato i controversi effetti dell’approccio top-down tipico delle grandi agenzie internazionali. Un approccio più integrale come quello che si sta disegnando in questi ultimi anni ha bisogno di una governance multilivello che combini orientamenti globali, politiche nazionali e scelte locali e ciò si riscontra nei 169 target. (https://sustainabledevelopment.un.org/topics/sustainabledevelopmentgoals )

In questo senso, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile disegnano un ruolo fondamentale per gli enti e le comunità locali. Le città, gli enti locali sono per loro natura le istituzioni più vicine ai cittadini e per questo potenzialmente più capaci di comprende e soddisfarne i bisogni. Gli enti locali sono anche gli interlocutori privilegiati dei legislatori nazionali, rispetto ai quali possono far arrivare non solo le istanze e i bisogni delle proprie comunità locali ma anche tutte quelle buone pratiche che solo a livello locale possono essere proposte e sperimentate. Per questo, il rafforzamento del ruolo delle città può essere anche una risposta alla crisi della forma Stato e dell’Europa che caratterizza la nostra epoca.

Ma per giocare fino in fondo questo ruolo, è necessario che Enti e comunità locali a livello globale siano in grado di sviluppare reti che consentano loro di reggere il confronto con le rispettive entità statuali. Nelle reti, tra città metropolitane, tra enti locali e realtà dell’economia sociale e civile, ma anche reti internazionali tra comunità locali a livello globale, gli enti locali possono trovare la forza e le competenze necessarie per soddisfare al meglio i bisogni dei propri cittadini, affrontare le principali sfide (si pensi all’inquinamento, alla questione migratoria, al terrorismo…) e generare così comunità locali sostenibili, resilienti e capaci di risposte rapide alle situazioni di crisi economica, sociale, ambientale.

Un’alleanza politica tra enti locali e realtà dell’economia sociale e civile capace di generare comunità locali sostenibili, resilienti e capaci di risposte rapide alle situazioni di crisi economica, sociale, ambientale, unita ad un’alleanza tra comunità locali a livello globale, può sicuramente sfidare gli Stati nella rappresentazione, comprensione e soddisfacimento dei bisogni e dei sogni dei propri cittadini, con il vantaggio di poter agire con maggior aderenza rispetto agli obiettivi.

La nostra epoca è indubbiamente caratterizzata dalla crisi della forma Stato e un rafforzamento del ruolo delle città, delle reti metropolitane e delle reti tra città è una possibilità concreta per fronteggiare l’incubo dello sfilacciamento dei centri decisionali che lascia spazio a gruppi di potere basati sull’esercizio della pura forza.

In allegato una scheda con 3 esempi di comuni che hanno attuato politiche di sostenibilità sociale e ambientale, sicuramente riproducibili. (Questi comuni fanno parte del Coordinamento La Pace in Comune).