LIBRI- Ripensare il capitalismo

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La copertina del libro

….”abbiamo un bisogno disperato di nuovi modi di pensare e concepire le politiche economiche: questo libro affronta i nostri preconcetti, sfida i nostri mostri sacri e offre finalmente idee nuove e provocatorie. (Financial Times)

Coordinati da Mariana Mazzucato e Michael Jacobs*, dieci big del pensiero economico (tra i quali il nobel Joseph E. Stigliz), sociale (Colin Crouch), e delle politiche climatiche ( Dimitri Zenghelis), hanno elaborato un saggio il cui contenuto si riassume magistralmente nel corsivo suindicato. Vogliamo solo aggiungere che sicuramente c’è anche un “bisogno disperato” di riaggiornare il nostro bagaglio culturale ed informativo, e quindi di sforzarci, ciascuno secondo le proprie possibilità, di seguire e studiare quanto di nuovo la pubblicistica qualificata e innovativa ci va proponendo.

 

*Mariana Mazzucato è professore di economia presso lo University College London, ed ha vinto nel 2014 e nel 2015 due importanti premi in materia economica. Micahel Jacobs dirige la Commission on Economic Justice all’INSTITUTE For Public Policy Research ed è Visiting Professor presso lo University College London.

Recensione

RIPENSARE IL CAPITALISMO
a cura di M. Mazzuccato, M. Jacobs- ediz. Anticorpi- LATERZA
Sembra un’epoca storica remota, una generazione fa, quando ancora c’era il muro di Berlino ed imperavano le ideologie; ancora 30 anni prima, nel 1962, Chruscev ammoniva un contrariatissimo Kennedy circa l’inesorabile estinzione del capitalismo che secondo lui aveva le ore contate perché sarebbe stato soppiantato, in maniera del tutto naturale, dalla società socialista, l’unica capace di traghettare l’umanità dal “regno della necessità al regno della libertà”. Tutti abbiamo visto come è andata: i regimi socialisti si sono dimostrati dei veri e propri sistemi antieconomici, antidemocratici e soprattutto cinici nei confronti dei popoli a cui dovevano garantire la libertà dalle necessità. Si sono tutti sciolti come neve al sole dopo circa 70 anni di esistenza per quanto riguarda l’URSS e circa 45 anni per i paesi satelliti dell’Est Europa. Non furono affatto quei paradisi che Marx ed Engels avevano predetto, cui l’umanità avrebbe approdato nell’ultima fase della “Storia”, bensì dei veri e propri regimi autoritari, dove la struttura economica, quella che secondo i padri del socialismo scientifico avrebbe generato “l’uomo nuovo”, si è rivelata clamorosamente fallimentare. Infatti i paesi socialisti sono implosi primieramente per l’assoluta insostenibilità dei propri progetti economici. Tutti i paesi che stavano oltre la cortina di ferro (con forse l’eccezione della Romania che però ne pagò le conseguenze con una forzata indigenza della sua popolazione, imposta dal suo delirante leader) mantennero per 45 anni (e 70 l’URSS) in piedi il proprio sistema di bassi affitti delle abitazioni, di prezzi calmierati degli alimenti e dei beni di consumo (in genere di pessima fattura), di prezzo nullo della sanità e dei servizi pubblici, contraendo fortissimi debiti con il vituperato mondo capitalistico. La RDT (Repubblica Democratica Tedesca) era già prima dell’unificazione un conglomerato di Lander sussidiati dalla RFT; dopo il 1990 Khol non fece altro che estendere un impegno amministrativo ad un già esistente forte impegno finanziario.

Assodato che il socialismo reale è stato una mistificazione e non può più essere una carta da spendere per sostenere il superamento del capitalismo, esistono ricette per riparare le immani storture dello stesso? A tal proposito un consesso di autorevoli economisti ha voluto dire la sua, analizzando, in un libro curato dalla Mazzucato (anch’essa relatrice), le principali storture dell’economia di mercato di oggi, facendo riferimento, come paradigma, alle economie più forti, di USA, Gran Bretagna, Germania e valutando ricette adeguate per mitigarne le mostruosità e dare al capitalismo “un volto umano”.

Tanto per cominciare la prima grossa stortura di cui dà clamorosa evidenza l’attuale capitalismo è l’enorme sperequazione nella distribuzione della ricchezza: prendendo come esempio l’economia più potente del mondo, quella USA, risulta, come ci dice Stiglitz,  che nel 2014 l’1% degli americani detiene il 41% della ricchezza e lo 0,1% ne detiene il 22%. La ricchezza di questo 1% è cresciuta dal 25% del 1978 al 41% nel 2014. Nello stesso periodo, se si ragiona in termini di reddito familiare percepito, quello relativo all’1% della popolazione più ricca è cresciuto del 169% (addirittura del 281% dallo 0,1%), mentre quello relativo al resto della popolazione è cresciuto del solo 11%. Questo andamento ha smentito clamorosamente la strategia del “trickle down” ossia quello di favorire l’arricchimento dei ceti già ricchi che grazie ai loro implementati investimenti, in cascata avrebbero portato beneficio all’intera popolazione. La strategia, già consolidata da Regan e dalla Thatcher è stata riprodotta in parte anche dalle amministrazioni Bush ed Obama con elargizione di somme notevoli di danaro alle banche ed ai banchieri nella prospettiva di rimettere in moto la crescita demandando ad esse la responsabilità di prestare i soldi alle aziende che avrebbero prodotto occupazione. Si è visto che, essendo mancata qualsiasi condizione per tali prestiti, questi finanziamenti si sono orientati principalmente nella direzione di aumenti stratosferici dei compensi dei Manager che hanno impegnato i danari non nello sviluppo dell’azienda, ma nella riacquisizione delle azioni, nel pagamento di dividendi generosi e nello incremento del valore azionario: tutto per compiacere e fidelizzare gli azionisti, che normalmente si aspettano risultati nel più breve tempo possibile. Infatti i compensi dei managers venivano abbinati all’incremento del valore azionario ed alla capacità di creare dividendi e non alla crescita produttiva dell’azienda. E’ quella che A.G.Haldane chiama “ossessione short termism”. Tale stortura purtroppo è lontana dall’essere corretta ma Haldane propone delle ricette che se applicate potrebbero risolvere il problema. Per brevità non stiamo qui ad elencarle ma solo ad accennare a quella principale di premiare con appositi accorgimenti la convenienza dei capitali a lungo termine che sono quelli che sono prodromi di sviluppo.

Il mondo capitalistico ha sofferto nel 2007-2008 di una crisi di dimensioni tanto ampie da ricordare moltissimo quella degli anni ’30 dello scorso secolo (anche se va detto con conseguenze di gran lunga meno drammatiche rispetto ad allora) e che è scaturita, opinione comune, da questa tendenza del capitalismo a trasformarsi in operatore finanziario piuttosto che operatore produttivo.

Alla luce del fallimento dell’ideologia statalista si è fatta strada una ideologia opposta, altrettanto perniciosa, che ritiene estremamente deleterio e funesto l’intervento dello stato nella economia reale: sono nate le stagioni del reganismo e thatcherismo che hanno letteralmente smantellato il sistema di “welfare” fino allora esistente e l’intervento pubblico in settori strategici dell’economia aprendoli selvaggiamente al capitale privato, nella convinzione che una cura dimagrante nelle spese dello stato avrebbe apportato beneficio all’intera nazione.

Oggigiorno, dopo quelle non tanto felici stagioni, rimane convinzione dell’ideologia dominante che lo Stato deve agire da buon padre di famiglia che non spende in alcun modo più di quello che incassa, per evitare un increscioso debito a cui non riesce a far fronte a meno di andare in giro a mendicare (ai fondi privati, alle banche, alle imprese, agli investitori esteri, ecc..) i soldi mancanti. Questo modo di vedere è drasticamente respinto da autorevoli personaggi, come Krugman e la Kelton i quali sottolineano l’assoluta inconsistenza del paragone bilancio familiare-bilancio statale perché è del tutto naturale che lo Stato operi in condizioni di perenne deficit se non si vuole che il paese si avviti in una perversa spirale di austerity-recessione.                                                     Paul Krugman, parlando a proposito della crisi del 2008 da cui se ne è venuti fuori con coraggiosi e massicci investimenti adottati dall’amministrazione Obama (787 miliardi di dollari immessi dall’intervento pubblico con la cosiddetta “legge di stimolo”) dice al riguardo quanto segue: “La crisi che stiamo vivendo è terribile ma non terribile come allora (quella del 1929) ed il merito è tutto dell’aumento del disavanzo. I disavanzi, in altre parole hanno salvato il mondo”.  Solo per la cronaca, il disavanzo nel 2009 raggiunse negli USA l’11% del PIL (cosa enorme se si pensa che in Italia non supera il 3%) ma dal 2009 al 2012 negli USA l’occupazione riusciva a salire di 1,6 milioni di unità l’anno.             Contrariamente al bilancio familiare dove intervengono problemi di carattere penale conseguenti a una possibile insolvenza dell’inavveduto e spendaccione padre di famiglia, uno Stato che registri una eccedenza di spesa a fronte di una mancata copertura di introiti (come le tasse) non ha lo stesso problema, perché il suo deficit di cassa è sempre qualcosa che come dice la Kelton “approvvigiona qualche altra parte dell’economia, qualche famiglia che consuma di più o investe in risparmi di titoli di Stato, qualche impresa che utilizza tali entrate per re-investimento, per pagare salari e non chiudere, qualche banca che può rimettere in circolo prestiti a buon mercato”. Rimane chiaro per la Kelton che la gestione del disavanzo rimane possibile e fattibile nel momento in cui i paesi che devono farci i conti, godano di una loro autonomia monetaria. Oggi è fonte di aspro dibattito questo dato di fatto, che vede le nazioni dell’area Euro ingabbiate dalla impossibilità ad emettere moneta propria e limitare perciò il proprio indebitamento a numeri fissati dal patto di stabilità. Conseguenza immediata è che alcuni paesi si sono trovati a ad attuare politiche di austerity che non hanno affatto limitato il debito pubblico, che si è incrementato a causa di spese straordinarie legate alla inevitabile spirale recessiva, (come prepensionamenti, casse integrazioni, sussidi di disoccupazione, ecc..). La Kelton non ripudia il nobile principio della moneta unica che tanto assicura un futuro di pace e di integrazione degli stati europei, ma sostiene che trattasi di una “moneta progettata male” e che va integralmente rivista, recuperando la logica delle vecchie monete vigenti negli stati nazionali. In altre parole l’Europa si deve trasformare in una federazione di Stati liberi con un unico bilancio e con propri bonds, approdando al principio di sussidiarietà cardine di tutti gli stati federali.

Ritornando al ruolo dello Stato nel processo economico, che,  ripetiamo, la teoria ortodossa dominante vuole confinato a semplice regolatore e stampella dei fallimenti del mercato, Mariana Mazzucato  ne  rivaluta il ruolo imprescindibile nel “plasmare e creare attivamente mercati per stimolare forme di crescita economica più forti, più sostenibili e più inclusive”.  C’è una verità che non viene diffusa con la dovuta energia: le più grandi innovazioni degli ultimi 50 anni che si è sempre presunto fossero opera esclusiva di brillanti menti operanti come privati, sono state originate da un massiccio intervento finanziario dello Stato a favore della ricerca. I vari Steve Jobs, Bill Gates, Silicon Valley, Siri, ecc.. hanno cavalcato l’onda di tecnologie innovative finanziate dal settore pubblico e non viceversa. La Apple ha avuto finanziamenti pubblici di 500.000 dollari al suo esordio. Lo stesso dicasi delle principali industrie farmaceutiche che hanno beneficiato dal 2000 al 2013 di circa 400 miliardi di dollari ad opera della NIH (National Investment on Helf) organismo pubblico mirante al miglioramento della salute generale nel territorio nazionale. Lo stesso dicasi nel settore dell’energia rinnovabile i finanziamenti alla ricerca profusi dal Dipartimento dell’Energia.  E’ uno schema che si sta ripetendo in tutti i paesi capitalistici avanzati: un capitale di lungo corso profuso dallo Stato al fine di dare decorso a nuovi scenari di sviluppo che nel tempo (anche 20-30 anni) si sarebbero rivelati profondamente innovativi e che avrebbero captato, una volta che ne avessero scorto le prospettive di ritorno economico, ingenti capitali di privati, che diciamola tutta, avrebbero investito con un margine di rischio alquanto limitato. Il più, il rischio più grande, era stato preso dallo Stato. Questo sta a significare che la teoria classica ortodossa che vuole lo Stato interventista solo per correggere i fallimenti del mercato, è assolutamente erronea.
L’intervento dello Stato non ha sempre avuto risvolti positivi: alcuni finanziamenti sono riusciti ad innescare settori positivi con successivi accodamenti dei privati, mentre altri (esempi sono l’automobile Tesla S e l’azienda del solare Solyndra) sono stati dei veri e propri insuccessi. Ma questo rientra nei rischi che deve assumersi uno Stato attivo che ha in prospettiva lo sviluppo del proprio territorio. Sta di fatto che la soluzione ottimale che sembra essersi man mano esplicata è stata quella della “socializzazione dell’investimento”: vale a dire di una partecipazione dello Stato agli utili delle aziende (alcune citate sopra) che, grazie ai suoi investimenti iniziali, sono riuscite a decollare come nuovi soggetti tecnologici ed ad affermarsi sempre di più. Risorse che lo Stato ovviamente utilizzerà per rifinanziare (con finanziamenti di lungo periodo o come viene detto con “capitali pazienti”) una nuova ricerca in altri settori merceologici che necessitano di innovazione. Da qui si evince la natura squisitamente attiva e creatrice dello Stato, che non è un passivo ente finanziatore di processi produttivi affermati da cui ricavare delle rendite, bensì di processi innovatori che diano nel tempo sviluppo del paese ed aumento dell’occupazione.

Questo piccolo sommario che abbiamo tracciato con riferimento al libro curato e redatto in parte dalla Mazzucato e da Jacobs in merito ad un capitalismo che deve essere ripensato, è solo uno spunto di riflessione datoci da alcuni dei suoi autori. Ci sono anche altri interessantissimi autori che vi hanno scritto e che hanno trattato altri importantissimi temi come la sostenibilità dei subappalti e la esternalizzazione di servizi di pertinenza pubblica, il rapporto tra economia di mercato e cambiamenti climatici, la discussione sugli investimenti a breve e lungo termine (di cui un qualche cenno si è fatto in questo piccolo sunto), eccetera, che non sono stati sviluppati in questi brevi cenni solo per evitare di riprodurre per intero il libro, ma che sono assolutamente da leggere.

Possiamo solo dire qui che il capitalismo non è necessariamente il mostro che per anni è stato dipinto (e spesso a ragione) da propagande o ideologie che alla prova della storia si sono mostrate ben più perniciose, ed anche inefficienti. Il capitalismo, come tutte le cose umane che hanno avuto una origine spontanea (non ideologica), necessita di essere regolato, essere preso per mano e condotto verso un orizzonte sociale, solidaristico, vantaggioso per l’intera società. Si è visto che il profitto fine a se stesso non crea sviluppo: la riprova sono le rendite finanziarie che stanno impoverendo il mondo, nonostante stiano ingigantendo il portafoglio di pochi speculatori. Del resto abbiamo visto come negli ultimi anni la ricchezza si sia concentrata nelle mani di pochi. Ma su quale futuro possono contare anche questi pochi straricchi, se attorno a loro si formerà il deserto ed una massa di diseredati? Pertanto sarà importante riproporre una ridistribuzione della ricchezza che miri ad un persistente incremento della base produttiva dei paesi, che genera incremento di occupazione, che a sua volta permetta un incremento di consumi materiali ed intellettuali e quindi diffusione capillare di case decorose e confortevoli, strade ben curate e manutenzionate, ferrovie sicure ed efficienti  ma anche di scuole, biblioteche, centri sociali, università, centri sportivi, centri di culto e di tutto quello che possa permettere a tutta l’umanità di vivere una vita dignitosa.

(sintesi a cura di Renato Santarelli del circolo ACLI Gallaratese di Milano)