L’ombra bruna

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Da più parti in Europa si risveglia una destra sovranista, antielitarista, spesso plebea, che dalla Francia delle Le Pen all’Ungheria di Orban alla Gran Bretagna di Farage fino all’Italia di Salvini e Grillo si pone come interprete autentica del sentimento popolare e sponda rassicurante rispetto ad un mondo che pare essere sempre più freddo, arcigno ed incomprensibile.

Non si può passare sotto silenzio il dato emergente dal primo turno delle elezioni regionali francesi svoltosi il 6 dicembre scorso: il fatto che il Fronte nazionale fondato da Jean-Marie Le Pen e ora  guidato da sua figlia Marine sia il primo partito a livello nazionale con il 27.9% dei voti e si sia classificato al primo posto in sei regioni è significativo – e preoccupante.
I partiti che tradizionalmente si contendevano l’egemonia nella Quinta Repubblica – i gollisti che Nicolas Sarkozy ha ribattezzato Repubblicani e i socialisti del Presidente Francois Hollande – sono relegati rispettivamente al secondo e terzo posto con il 26.8 ed il 23.3. E’ quindi concreta la possibilità che l’estrema destra, che allo stato di cose governa poche città e nessun dipartimento e ha solo due deputati all’Assemblea nazionale e due senatori, possa arrivare alla guida di qualcuna delle regioni in palio, tenuto conto che la lista guidata dalla leader Marine Le Pen ha ottenuto più del 40% dei voti nella regione del Nord Pas-de-Calais e che altrettanto ha fatto quella guidata dalla giovane deputata Marion Maréchal, figlia di una delle sorelle maggiori di Marine, Yann, nella regione meridionale che raggruppa Provenza, Alpi marittime e Costa azzurra (PACA).

Molti osservatori, come è ovvio, hanno fatto riferimento agli attentati rivendicati dal Daesh, il cosiddetto Stato islamico, che hanno sconvolto ed insanguinato Parigi il 7 gennaio e il 13 novembre di quest’anno, come al possibile additivo delle fortune elettorali del FN, che nella retorica xenofoba, razzista ed antislamica ha sempre avuto uno dei suoi punti di forza propagandistici, ma si tratta di un’interpretazione errata. La progressione elettorale del partito di estrema destra è infatti un fattore costante, che va avanti da tempo e che ha toccato il suo apice negli ultimi tre anni, a partire dalle elezioni presidenziali e politiche del 2012, da quando cioè alla grinta arrugginita ed assai poco rassicurante del padre-padrone-fondatore il partito ha sostituito quella della figlia terzogenita.
Può sembrare infatti strano in un partito che dimostra di avere una ferrea impronta familiare – il padre, la figlia, la nipote…. – ma proprio Marine Le Pen ha dimostrato una totale discontinuità rispetto al milieu che aveva fatto la fortuna del padre: nostalgici della monarchia o del regime di Vichy, antichi pied-noirs ancora infuriati con De Gaulle ed i suoi eredi per l’abbandono dell’Algeria, tradizionalisti cattolici seguaci di Lefebvre, fascisti più o meno dichiarati…
Al contrario Marine Le Pen, a costo di incorrere nelle ire del padre, che è stato espulso dal partito da lui stesso fondato, ha cercato di mettere in atto – ovviamente senza dirlo – quella strategia di “normalizzazione” del partito che era stata tentata circa vent’anni fa dall’allora numero due del FN Bruno Mégret: costui, raro esponente dell’establishment ad avere aderito al partito estremista, aveva sostenuto la necessità di dare al partito un profilo più moderato, fondendone le istanze con quella della destra moderata. Ciò aveva suscitato l’ira del vecchio Le Pen, che in queste tesi aveva visto (e probabilmente non aveva torto) un tentativo di scalzarlo dalla guida del partito, ed aveva reagito alla sua maniera impetuosa espellendo Mégret ed i suoi seguaci dal FN.

Tuttavia ora le cose sono cambiate, soprattutto alla luce della grave crisi economica, che in Francia si è tradotta in una disoccupazione endemica e nella crescita di frange sociali condannate alla marginalità, cui i partiti tradizionali non sembrano in grado di dar risposte in un quadro di progressivo degrado delle realtà popolari tradizionali, a partire dal Nord minerario ed industriale oggi fucina di disoccupati, che da una fedeltà ferrea alla sinistra socialista e comunista è oggi passato ad una fascinazione verso il Front National ed il suo discorso securitario e sovranista. Soprattutto questo sembra essere la carta vincente attuale: il ricorso cioè alla centralità dello Stato nazionale come artefice della politica economica, sociale e difensiva rispetto all’Unione europea percepita come un meccanismo freddo, burocratico e soprattutto estraneo rispetto ai bisogni popolari. Non è un caso che Marine Le Pen abbia manifestato la sua solidarietà – alquanto imbarazzante – al governo greco guidato dal Alexis Tsipras all’epoca del referendum del luglio scorso, che il leader della sinistra ellenica vinse dovendo però alla fine cedere alle richieste che venivano da Bruxelles (e da Berlino).
Il problema è che tutti i partiti francesi hanno ceduto a questa stessa retorica, come dimostra la parabola di Sarkozy che cercò, in modo spregiudicato, di cavalcare le tematiche proprie del Front National per portarle nell’ambito della destra tradizionale, e alla fine si accorse che ampi settori dell’elettorato preferivano l’originale alla copia. I socialisti dal canto loro, oscillando fra un massimalismo verbale ed una prassi riformista incerta, hanno scontentato coloro che dettero loro fiducia nel 2012 portando Hollande all’Eliseo.
Certo, come ha ricordato giustamente il politologo Stefano Ceccanti, in un sistema politico come quello francese i risultati si valutano al secondo turno, quando effettivamente si decide il vincitore, ed è verissimo che l’insieme delle liste di sinistra – ossia il PS più i comunisti più i Verdi ed altre forze minori – è al 36% sopravanzando nettamente lo score del FN. E’ altrettanto vero che a votare è andato all’incirca il 50% degli aventi diritto, e che presumibilmente questo dato – che non si ripeterà quando si voterà per la Presidenza della Repubblica e per il Parlamento – ha esaltato il voto del partito estremista.

E tuttavia non si può negare che da più parti in Europa vi sia come un risveglio di una destra sovranista, antielitarista, spesso francamente plebea, che si pone come interprete autentica del sentimento popolare di quelli che sono stati definiti gli “sconfitti della globalizzazione”, quella larga fetta di ceto medio impoverito che incolpa l’alta finanza e l’Unione europea del restringersi dei suoi orizzonti di vita ed è disponibile a credere – dalla Francia delle Le Pen all’Ungheria di Orban alla Gran Bretagna di Farage fino all’Italia di Salvini e Grillo – a messaggi di tipo xenofobo, razzista e securitario perché in essi vede una rassicurazione rispetto ad un mondo che pare essere sempre più freddo, arcigno ed incomprensibile.
Solo che non è un fenomeno nuovo: chi si curi di andare a rileggere la propaganda degli apologeti del fascismo e del nazismo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso vi vedrà lo stesso tipo di retorica, la stessa pretesa di non essere “né a destra né a sinistra” (era lo slogan del fascismo francese, come risulta dalla monumentale opera che vi dedicò Zeev Sternhell), la stessa tendenza a scaricare su di un nemico esterno e tentacolare la responsabilità per i mali del Paese. E’ come quindi se nel cuore dell’ Europa fosse sempre in agguato un’ombra nera (anzi bruna) che sistematicamente si allunga nel momento in cui la democrazia non sembra essere in grado di mantenere le sue promesse.

L’Unione europea è stata per molti anni l’aspirazione delle forze democratiche – socialiste, popolari e liberali – nella prospettiva di liberare il Vecchio Continente dalla minaccia della guerra e della miseria. L’Unione così com’è, nonostante i suoi molti meriti, non soddisfa più tali esigenze.
Si può fingere di credere che è possibile tornare indietro, agli Stati nazionali, ma è una risposta illusoria e pericolosa: oppure si può andare avanti, verso gli Stati Uniti d’Europa.