Lorenzo Cantù cinque anni dopo

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Lorenzo Cantù

di Lorenzo Gaiani – 26/08/2015

Nella sua estrema sobrietà di vita, nella sua attenzione ai problemi delle persone con il costante riferirsi alla dimensione evangelica è stato un esempio per molti Il 2 settembre si celebra la Messa in Suffragio presso la cappella feriale in Duomo.

A cinque anni dalla morte avvenuta il 2 settembre 2010, ricordare Lorenzo Cantù, al di là della commozione e dell’amicizia che velano la memoria, ha il senso di cercare di comprendere una personalità non comune, in cui una rettitudine e linearità di vita riconosciute da tutti si mescolano con una dimensione più intima, riservata, nella quale egli faceva entrare pochissime persone e che tuttavia, per coloro che sapevano coglierne un riverbero, era pur sempre un dono prezioso.Avendo collaborato con lui circa sette anni nelle ACLI milanesi all’epoca della sua presidenza, ed avendolo comunque frequentato abbastanza regolarmente fino alla sua morte, credo di essermi fatto un’idea di fondo di alcuni elementi del suo modo di essere, che era insieme un dato naturale ed il prodotto di uno sforzo di volontà, soprattutto per alcuni tratti fondamentali.
Non mancavano a Cantù né il dono della parola né quello della scrittura, ma credo che si possa dire che il suo stile di governo – il suo stile di vita – fosse essenzialmente dominato dall’esigenza di dare un esempio. La sua estrema sobrietà di vita, la sua attenzione ai problemi delle persone che si accompagnava ad un sostanziale disinteresse personale verso il potere l’arricchimento, il suo costante riferirsi alla dimensione evangelica, in consonanza spirituale con figure sacerdotali importanti nelle ACLI come padre Pio Parisi e don Raffaello Ciccone, erano altrettanti elementi di una modalità di esprimere il proprio altissimo ruolo di responsabilità.
Aveva un carattere forte, e talvolta di fronte a comportamenti censurabili prorompeva in veri e propri scoppi d’ira, ma più in generale egli credeva che il compito di chi guida non fosse quello di assumere pose da condottiero o di tracciare mappe dogmatiche da seguire prescindendo dalle lezioni della realtà, quanto piuttosto di correggere, precisare, chiarire, mettere in evidenza e indicare che non si dà riforma vera se non è prima riforma di costumi e di atteggiamenti. Chi seppe cogliere questa lezione imparò molto.

Il secondo tratto distintivo era l’estrema discrezione. Per quanto il tratto di Lorenzo fosse sempre estremamente cordiale, era evidente che vi erano aspetti della sua vita che erano riservati a lui stesso e a pochissimi altri, e di cui anche chi con lui collaborava più strettamente non seppe nulla fino alla sua morte.
Intuivamo ad esempio che, uomo di altissima spiritualità, egli avesse scelto di non sposarsi per poter rimanere nel mondo in un percorso di laicità consacrata, ma ci era ignoto fino a che punto egli fosse coinvolto nell’attività dei Missionari della Regalità, il primo Istituto secolare ideato da padre Agostino Gemelli quando ancora il concetto stesso di laicità consacrata era sconosciuto alla Chiesa. Di fatto, egli fu il Presidente del sodalizio dal 1987 al 2000, intersecando questa attività – che spesso lo portava in giro per il mondo o che lo metteva a contatto diretto con le più alte Gerarchi ecclesiastiche – con quella delle ACLI di Milano, senza che né l’una né l’altra (lo so da un lato per esperienza diretta e dall’altro per le testimonianze dei suoi confratelli) ne soffrissero. Fra l’altro fu per questo che, nel settembre del 1995, egli riuscì a portare ai piedi di Nostra Signora d’ Europa, a Motta di Campodolcino, sia il cardinale Carlo Maria Martini, suo coetaneo, che lo stimava moltissimo, sia l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che dopo la prematura scomparsa della moglie aveva aderito al sodalizio gemelliano.
Il volumetto che la Regalità ha pubblicato poco dopo la sua morte, e che raccoglie gli editoriali che Cantù scrisse come Presidente per il foglio di collegamento del sodalizio (“Lorenzo Cantù-Una vita per il regno”), rivela una volta di più un’anima appassionata, capace di legare la quotidianità all’eternità attraverso una costante familiarità con la Parola di Dio e con una presenza costante nella vita politica, sindacale ed associativa.

Per concludere. Ho fatto accenno prima al rapporto di stima e di fraternità che lo legava al card. Martini, suo coetaneo, ma sarebbe ingiusto dimenticare come tale legame comprendesse anche don Raffaello Ciccone, e quanto esso abbia inciso sulla vita della comunità ecclesiale milanese, sulla sua capacità di orientamento sociale, e in definitiva anche sulle ACLI, per le quali il Cardinale ebbe sempre una particolare attenzione e nelle quali Lorenzo e don Raffaello spesero molte delle loro straordinarie energie con dedizione ed amore.
Personalmente io guardo a questi tre amici, transitati in un lustro alla Vita che non passa, come a punti di riferimento e a protettori che ci seguono e che intercedono nelle difficoltà del nostro cammino