Il 58% meno della metà degli elettori del Canton Ticino, che ha una popolazione di 300.000 abitanti, ha risposto affermativamente al quesito sulla preferenza dei lavoratori svizzeri rispetto a quelli stranieri. Il titolo del quesito era “Prima i nostri”.
Tra poche settimane in Ungheria si celebrerà un altro referendum per stabilire se accettare o meno le quote degli immigrati indicate dall’Unione Europea. Anche in questo caso il risultato appare scontato.
Ma in entrambi i casi lo strumento del referendum viene utilizzato per giustificare politiche di limitazione e di violazione dei diritti fondamentali della persona.
La volontà popolare viene apparentemente esaltata dall’uso del referendum, quando in realtà è strumentalizzata, attraverso sentimenti – certamente umani e tuttavia non da assecondare – come la paura e l’egoismo sociale, per perseguire obiettivi politici che non hanno molto a che fare con l’oggetto del quesito.
Prendiamo il voto ticinese.
I 62.000 lavoratori italiani coprono una gamma di attività assai variegata, in particolare svolgono lavori che gli svizzeri non vogliono fare, soprattutto nei servizi alla persona e ospedalieri, nel commercio e nelle banche.
E’ stato detto che quest’ultimi sottraggono lavoro agli svizzeri perché hanno salari più bassi: adeguati per gli standard di vita italiani, ma non per quelli svizzeri.
La disoccupazione nel Ticino è al 3%, a chi stanno portando via il lavoro gli italiani?
Se questo accade, è forse perché manca una politica del mercato del lavoro e salariale che tuteli il lavoro a prescindere dalla nazionalità del lavoratore? Se così fosse, dove è la politica ed il sindacato?
Pur scontando la peculiarità del sistema costituzionale svizzero improntato sul largo uso degli strumenti di democrazia diretta, non è pur vero che la politica, o meglio, la parte che ha promosso questo referendum, poteva porre un diverso quesito: volete eguaglianza salariale?
Come si vede, non ci vuole molto a strumentalizzare la volontà popolare e a farla passare per esercizio alto della sovranità.
La risposta italiana è stata duplice.
Quella nazionale (Ministro degli Esteri) ha fatto leva sulla necessità di osservare e di far osservare i principi sulla libera circolazione delle persone, benché gli effetti del voto referendario non siano immediati, né immediatamente prescrittivi, necessitando addirittura di modifiche costituzionali; quella lombarda, al netto degli imbarazzati distinguo sugli immigrati regolari e irregolari, è stata quella di rilanciare: “la proposta di creare una ‘Zona a economia speciale’ nei 20 chilometri del territorio lombardo al confine con la Svizzera. “E’ qualcosa – ha spiegato – che, secondo le regole europee, si può fare. In questo modo avremmo vantaggi per le imprese simili a quelli che ci sono in Svizzera e creeremmo le condizioni attraverso le quali i lavoratori potranno rimanere a lavorare in Lombardia, invece di passare il confine, perché’ non c’è lavoro a sufficienza a casa loro” (Comunicato stampa del 28 settembre 2016. Sito ufficiale della Regione Lombardia).
In concreto, stante la tipologia occupazionale e professionale degli italiani in Ticino, nella fascia della zona speciale dovrebbero essere collocati nuovi ospedali, case di riposo, centri commerciali, banche e poche industrie.
Si tratta di una proposta di retroguardia, oltretutto discriminatrice tra imprese, potenzialmente in conflitto con le regole del libero mercato, perché la zona speciale fa leva su un differenziato e più favorevole regime fiscale, ma non sulla migliore qualità di prodotto e competitività delle imprese.
La differenza con l’ipotizzata zona speciale nell’area Expo è del tutto evidente. Qui c’è l’idea di dare vita ad un centro della conoscenza, della ricerca e dell’innovazione a livello mondiale, nella proposta regionale c’è solo il tentativo di incentivare spostamenti di imprese nella fascia di confine da altri siti.