La notizia a dir poco sconvolgente della nomina del gesuita Carlo Maria Martini alla guida dell’ Arcidiocesi di Milano venne diffusa dalla Sala stampa vaticana il 29 dicembre 1979; già il 6 gennaio successivo, nella solenne cornice della Basilica vaticana, Giovanni Paolo II consacrava il nuovo Arcivescovo, che faceva il suo ingresso in una città che conosceva poco il 10 febbraio, percorrendo un memorabile cammino fra due ali di folla portando in mano il Vangelo.
Nessuno, a partire dal diretto interessato, si aspettava quella nomina alla guida della Diocesi più grande d’Italia, una nomina che, come rilevava Giovanni Spadolini sul “Corriere della sera” , cent’anni prima sarebbe stata accolta dall’establishment laico sia milanese che nazionale come una grave provocazione, vista la fama della Compagnia di Gesù come bastione ed avamposto del più nero oscurantismo clericale. Qualche sconcerto la nomina lo provocò anche in certi settori della Diocesi ambrosiana, dove ci si aspettavano altri nomi, creando le basi per quella che non fu una vera e propria opposizione ma una sorta di rumore di fondo che accompagnò tutto l’episcopato martiniano e a cui si alimentarono oppositori più dichiarati – ad esempio gli esponenti di certi nuovi movimenti ecclesiali- per rivendicare a sé la continuità della tradizione ecclesiale milanese che in qualche modo il nuovo Arcivescovo avrebbe interrotto.
L’atteggiamento prevalente era quello dell’attesa , e lo stesso fecero le ACLI, il cui ruolo ecclesiale (non tanto l’appartenenza alla comunità dei credenti, che era rimasta intatta) rimaneva incerto dopo le vicende del 1971, che anche a Milano avevano avuto risonanza. In effetti già dall’aprile 1980 il nuovo Arcivescovo volle incontrare in modo semiriservato in via della Signora le Presidenze acliste che insistevano sul territorio diocesano (Milano, Lecco, Varese): dal resoconto pubblicato dal Giornale dei lavoratori risulta che Martini ascoltò molto e parlò poco ,anche se dal suo breve intervento emerge un’immagine molto felice, quella delle ACLI come “penisola”, non separata dalla Chiesa ma ad essa legata da una lingua di terra esile e nello stesso tempo solida, e quindi avamposto ecclesiale in mare aperto (una figura della “Chiesa in uscita”, per usare un’immagine cara ad un altro gesuita…).
L’anno successivo Martini volle venire personalmente a celebrare la Messa per i partecipanti al III Congresso regionale delle ACLI lombarde che si svolse a Pieve Emanuele e fu lui, al termine di un percorso di mediazione, a restituire alle ACLI la presenza di un sacerdote, sia pure non nella forma precedente dell’assistente ecclesiastico, nella persona prima di don Gianfranco Bottoni e poi di don Raffaello Ciccone. La presenza nel gruppo dirigente del Movimento di persone che con Martini avevano un diretto legame intellettuale ed umano, come Lorenzo Cantù e Giovanni Bianchi, ebbe sicuramente l’effetto di permettere al nostro Movimento di godere di un’attenzione diretta da parte del Cardinale che si manifestò nelle molte occasioni di incontro che si realizzarono nei ventidue anni del suo episcopato.
In particolare va ricordata, sul finire di quella grande stagione, la partecipazione di Martini al rinnovo del “patto associativo” delle ACLI nel 1999, durante la quale l’Arcivescovo disse cose impegnative riguardo alla presenza del Movimento sia nella comunità ecclesiale sia in quella civile.
D’altro canto, se si guarda con attenzione all’episcopato martiniano, e anche alle successive espressioni del suo pensiero quando ormai in qualche misura “libero” dagli impegni dell’ufficialità egli prese ancora la parola fra Gerusalemme, Roma e Gallarate (dove terminò la sua esistenza terrena) noi vediamo come compiutamente egli abbia adempiuto non solo gli obblighi del pastore ma anche a quelli del profeta, almeno secondo l’interpretazione del suo amico Turoldo per cui profeta non è colui che svela il futuro ma interpreta secondo la mente di Dio il presente. .
In un intervento tenuto nel dicembre 1989 Martini si interrogò sulla possibilità del cristiano di santificarsi tramite la via dell’impegno sociale e politico : egli ammise che “ essere cristiani in politica significa davvero far passare un cammello per la cruna di un ago. Già non è facile essere cristiano e vivere il Vangelo nelle relazioni brevi, quotidiane, immediate, della famiglia, del lavoro. Già non è facile essere santi nelle decisioni riguardanti la propria sfera privata. Tuttavia nella sfera privata si può dare spazio all’ascetismo, per esempio, alla rinuncia, proprio perché questo tocca solo me e le mie abitudini. La radicalità del Vangelo nella vita privata non disturba troppo gli altri nell’ordine esterno delle cose. Al limite, basta farsi monaco o religiosa claustrale, entrando così in un sistema in cui la radicalità evangelica è favorita, protetta e in fondo accettata dalla pubblica opinione. Ma occuparsi della cosa pubblica, avere a che fare con livelli non ordinari di denaro, di decisioni amministrative significa entrare in qualche modo nel campo della ricchezza, nelle spine della parabola; anche se privatamente uno può essere molto distaccato, però è ingabbiato in un sistema che gli rende tutto difficile”.
E tuttavia i credenti non sono semplici sentinelle dell’etica, e nemmeno degli apocalittici o degli impazienti: sono, più semplicemente, dei perseveranti. Per questo il Cardinale insiste nel sottolineare che la parola evangelica “cade su situazioni impossibili, umanamente disperate, su situazioni in cui un realismo sobrio si accontenterebbe di tenere in alto gli ideali lasciando poi a ciascuno di fare ciò che può. Il Vangelo cade su una situazione in cui si è colta la condizione dei ciechi, dei lebbrosi e dei morti e su questa situazione rifulge come buona notizia la novità sconvolgente della parola di Dio: è possibile che i ciechi vedano, che i sordi odano, è possibile la santità come grazia, come dono dall’alto, e non come rimedio a qualche cosa che andrebbe già abbastanza da sé. Anche i politici e i responsabili entrano nel Regno se hanno capito la novità e la forza della grazia e se sono disposti ad accoglierla come dono di Dio. La soluzione del problema è proprio nel brano del giovane ricco, quando Gesù dice: “Ve lo ripeto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” e poiché i discepoli sono costernati e gli chiedono chi potrà salvarsi aggiunge: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”(Mt 19,26)”
La conclusione è una constatazione, e viceversa: “Si tratta di un cammino arduo, impegnativo, si tratta di entrare nella categoria dei poveri in spirito a cui è promesso il regno dei Cieli. Solo così si può definire la politica come una forma di carità che non è semplicemente darsi per gli altri, bensì un darsi per gli altri a partire da una conversione cristiana seria, che cambi l’orientamento della vita, che faccia scegliere interiormente la povertà di Cristo e che permetta quindi di esprimere con animo libero il potere, il servizio attraverso la capacità di disporre di beni, di strumenti, di determinati fini con libertà e scioltezza di cuore, superando ogni giorno le tentazioni drammatiche che attraversano la vita di chiunque assume responsabilità pubbliche” .
Primato della Parola, centralità della coscienza e capacità di discernimento: questi tre insegnamenti di fondo di Martini devono essere ancora oggi alla base dell’azione nostra e di chiunque scelga di impegnarsi cristianamente per rendere più giusta questa società, e costituiscono il legato di un grande Vescovo che proietta il suo insegnamento ben oltre le soglie della sua scomparsa.
Anzi, per certi versi, egli è oggi presente fra noi ben più di quanto lo fosse quarant’anni fa.