Morire a sei anni

Morire a sei anni email stampa

Silvia Maraone sempre lucida nell'analisi della drammatica realtà dei campi profughi. Il racconto amaro e duro non può non interrogare le coscienze di tutti

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L’altra sera mi trovavo a Milano e leggevo i numeri delle migrazioni negli ultimi quattro anni. Oltre ai diversi ingressi registrati, c’è un’altra statistica che viene citata poco. Il numero delle persone morte nel tentativo di arrivare da noi, in Europa. Sono stime, perchè di tante persone non conosceremo mai veramente il destino. Chi annega in mare e viene sommerso dai flutti. Chi muore di sete e di caldo nel deserto e sparisce ingoiato dalla sabbia rovente. Chi congela nei fiumi e tra le montagne dei Balcani e viene divorato dagli animali selvatici. Sono in media quattromila all’anno le persone che spariscono così. Seppellite in fosse comuni, lontane dalle proprie famiglie e dalle proprie case. Noi li vediamo come una massa indistinta, fatta di numeri. E non ci sconvolge.

Viviamo tra i morti, nuotiamo tra i cadaveri nel Mediterraneo. E non ci pensiamo, se non quando magari una foto più di un’altra non ci colpisce. Ci fu il caso di Aylan nel 2015, con la sua maglietta rossa, riverso a faccia in giù sulla riva del mare, che ci fece trattenere per un attimo il fiato e che spalancò di colpo le porte del sogno EU a quasi un milione di persone. Dopodichè, quel quasi milione di persone divenne troppo da gestire e firmammo un accordo a Marzo 2016, per chiudere la rotta balcanica, lasciando quasi 80.000 persone ferme tra la Grecia, la Macedonia e la Serbia.

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Silvia Maraone, cooperante di Ipsia (l’Ong delle Acli)  si trova in Serbia nel campo profughi di Bogovadja, per il progetto di ACLI, Caritas Ambrosiana, Caritas Italiana, Caritas Serbia, finanziato da ACLI (fondi 5×1000 anno irpef 2014), Caritas Italiana e Caritas Ambrosiana.