Ermanno Olmi non ha mai amato nelle sue opere parlare dei grandi della Terra: al contrario, tutte le sue opere cinematografiche narrative sono state incentrate sui poveri, i semplici, gli umili, a partire da quel meraviglioso apologo sulla fatuità del boom economico degli anni Sessanta che è “Il posto”, il film che lo rivelò nel 1961.
Il suo successo più noto ovviamente fu “L’albero degli zoccoli”, che nel 1978, con apparente anacronismo,ricordò le radici contadine della nostra società dipingendole con vivo realismo: molti critici, soprattutto a sinistra, giudicarono severamente quel film quasi fosse una sorta di apologia della sottomissione e del clericalismo. Ciò era completamente assente dalla mente di Olmi, che al contrario in quegli spaccati di vita quotidiana, in cui la miseria e l’abiezione si affiancavano alla generosità e all’amore, voleva fare memoria della verità più profonda di un Paese che indubbiamente si è sviluppato sotto il profilo tecnico ma non ha mai colmato la frattura sociale fra chi sta in alto e chi sta in basso.
D’altro canto Olmi stesso era figlio di quella terra bergamasca, di contadini che poi si sarebbero inurbati alla Bovisa, uno dei più popolari quartieri di Milano, di cui avrebbe parlato in un delicato romanzo autobiografico intitolato appunto “Ragazzo della Bovisa”, così pregno di quell’ “eroica resistenza della povera gente” di cui aveva parlato uno spirito in qualche modo a lui affine come Cesare Zavattini.
Due furono le eccezioni di Olmi rispetto alla sua predilezione per i personaggi anonimi: il film dedicato a Papa Giovanni XXIII “E venne un uomo”, e il più tardo “Il mestiere delle armi” di ambientazione rinascimentale. E tuttavia, in ambedue i casi si riscontra una scelta precisa: la vita del Papa buono, peraltro conterraneo del regista, viene narrata in forma indiretta dalle persone che gli sono state accanto, a partire dalla sua famiglia contadina. Allo stesso modo, l’apologo dedicato alla vita e alla morte del condottiero Giovanni dalle Bande Nere è essenzialmente la storia di un soldato che rifiuta di essere uno strumento nelle mani della politica. Nonostante gli inganni ed i tradimenti, sceglie comunque di andare incontro al suo destino perché, per citare Orwell, le azioni anche se sono prive di effetto non per questo risultano prive di significato .
In tutta la sua attività Olmi ha sempre dispiegato una salda convinzione etica che era anche il riflesso di una tormentata religiosità – il paragone più evidente è quello con Bresson – che talvolta prendeva delle forme espressive dirette (come in “Camminacammina”, “Centochiodi” e “Il villaggio di cartone”) talvolta rimaneva sottotraccia ma sempre accompagnava questo insaziabile cercatore di verità persuaso che essa abitasse in basso, fra gli umili, e non in mezzo ai potenti , e che la grandezza vera consistesse nell’umiliare se stessi, come il professore di “Centochiodi”.
Da qui il suo affetto per la figura del cardinale Martini, cui è dedicato il suo ultimo lungometraggio intitolato non a caso “Vedete, sono uno di voi”, viva rappresentazione dello studioso, del Principe della Chiesa che ha saputo vivere in mezzo alle persone semplici e che alla fine è stato anche svuotato (“kenosis”) dalla malattia come Cristo “svuotò” se stesso sulla croce.
Non possiamo infine dimenticare che Olmi, grazie alla sua vecchia amicizia con Giacomo Previdi, frequentò talvolta l’ambiente delle ACLI milanesi: ci piace pensare che fra noi abbia trovato le tracce di quella passione per gli ultimi che a lui ha permesso di trasfigurare in poesia l’arte cinematografica.