Piazza Fontana: una ferita nel cuore della città

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A 50 anni di distanza resta la ferita mai rimarginata al cuore della città, resta una verità parzialmente disvelata ma resta anche la memoria dei giorni successivi, della reazione composta di un popolo atrocemente ferito, di una folla silenziosa e compatta raccolta attorno al Duomo in cui si celebravano le esequie, e l'unica voce che rimbombava dagli altoparlanti era quella del Cardinale Arcivescovo Giovanni Colombo

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La prima pagina del Corriere della Sera del giorno dopo l'attentato, 13 dicembre. I morti purtoppo nei giorni successivi salirono a 17

In un articolo di dieci anni fa Giovanni Bianchi scriveva che la bomba scoppiata nei locali della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana il 12 dicembre 1969 aveva segnato la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Non che la violenza sia mai stata assente dalla dialettica politica e sociale del nostro Paese, anzi, ma il gesto premeditato di seminare strage e lutti nel cuore della città simbolo della Resistenza, a meno di venticinque anni dalla Liberazione e nel pieno di lotte studentesche ed operaie che sembravano voler cambiare il volto di una società opulenta e allo stesso tempo divisa da gravi contraddizioni, segnavano quello  che oggi si definirebbe un upgrade.

Da allora, anche se all’epoca non lo si poteva sapere, il terrorismo sarebbe diventato il convitato di pietra della dialettica politica nazionale, che apparve prima incapace di comprenderlo e di metabolizzarlo e poi lo combatté spietatamente senza però essere capace di storicizzarlo (una tradizione nazionale, visto che non siamo nemmeno stati capaci di fare fino in fondo i conti con un’altra nostra peculiare invenzione nel campo della dottrina e della prassi  politiche, il fascismo).

Proprio perché fu la prima, la strage di piazza Fontana è diventata un simbolo al di là del fatto in se stesso, dei 17 morti a seguito dell’attentato, a cui si sommano, in via indiretta, anche le morti violente del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, caduto da una finestra tre giorni dopo la strage a causa di quello che venne chiamato un “malore attivo” mentre veniva trattenuto illegalmente in Questura, e del commissario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972 da un commando che, secondo le sentenze della Magistratura, era formato da esponenti di Lotta Continua istigati dai due leader di quel movimento, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani.

Dopo una serie di processi, di smarrimenti di prove, di trasferimenti assai dubbi della sede processuale, di condanne poi revocate dalla Cassazione, l’ultima verità processuale accertata risale ad una sentenza del 2005 della Suprema Corte, che stabilisce come la strage ebbe per mandanti gli estremisti fascisti del gruppo “Ordine nuovo” ed in particolare i leader Franco Freda e Giovanni Ventura, i quali però non poterono essere condannati perché già precedentemente assolti per la stessa imputazione. A livello degli esecutori materiali, a parte l’artificiere Carlo Digilio (responsabile anche per la bomba di piazza della Loggia a Brescia insieme all’altro esponente neofascista Carlo Maria Maggi, anche lui condannato in via definitiva per quell’attentato), condannato ma prescritto, non si è mai raggiunta alcuna certezza.

Sicuramente non era colpevole Pietro Valpreda, e l’intera pista anarchica si rivelò abbastanza rapidamente per quello che era, un depistaggio costruito ad arte per sviare l’attenzione dai veri responsabili e dai loro protettori, che si annidavano nei servizi segreti italiani e stranieri ed in certi settori politici spaventati dall’emergere della contestazione sociale che sembrava mettere in crisi gli equilibri politici consolidati.

L’espressione “Strage di Stato” che venne allora coniata, se coglieva nel segno rispetto alle omissioni e alle coperture di cui avevano beneficiato mandanti ed esecutori della strage, che trovavano il loro trait – d’- union nell’ambigua figura di Guido Giannettini, intellettuale di simpatie fasciste ed insieme agente segreto al servizio (teorico) della Repubblica nata dalla Resistenza, anche lui condannato all’ergastolo nel 1979 per complicità nella strage ma assolto l’anno successivo ed uscito definitivamente dall’inchiesta, era però allo stesso tempo imprecisa in quanto rimandava ad uno scenario cinematografico per cui si immaginava che da Palazzo  Chigi  (o dal Quirinale, o addirittura dalla casa Bianca) fosse arrivato un ordine diretto che attraverso vari intermediari giungeva agli ignoti bombaroli.

La realtà era più sfumata, e consisteva semmai in omissioni, depistaggi, ordini indiretti, convergenze occasionali di interessi: forse vi fu qualcuno che ai vertici istituzionali pensava possibile utilizzare la manovalanza dei gruppi estremisti di destra (Ordine Nuovo, ma anche il Fronte Nazionale del ben più blasonato principe Junio Valerio Borghese, ex capo della X MAS nella seconda guerra mondiale) per far scoppiare delle bombe dimostrative attribuendone la responsabilità all’estrema sinistra e provocando elezioni anticipate che spostassero a destra l’asse politico del Paese (era il disegno, a quanto sembra, di una parte della DC, non di tutta, non, ad esempio, di Aldo Moro). Solo che i fascisti giocavano per conto loro, e volevano valersi di queste complicità per arrivare ad un rovesciamento complessivo di uno Stato democratico che disprezzavano, e lo stesso Borghese l’anno dopo (esattamente un anno dopo, la notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970) fu a capo di un tentativo di colpo di Stato militare che abortì sul nascere, e che forse non esistette mai perché anche in questo caso le coperture politiche nazionali ed internazionali vennero ritirate all’ultimo momento, e forse l’intero golpe , nonostante le illusioni di Borghese e del suo circolo di amici, fu un atto puramente coreografico, un messaggio in codice che certi gruppi di potere mandavano a certi altri.

Nello stesso tempo la radicalizzazione di certi settori dell’estrema sinistra, che spingevano per un superamento radicale del capitalismo e contestavano il gradualismo e la scelta legalitaria del PCI, dava origine al terrorismo di sinistra, che era espressione di reali elementi di malessere sociale ma andò sempre più intrecciandosi anch’esso con legami interni ed internazionali incomprensibili di primo acchito.

Cosa resta dunque di piazza Fontana? Resta la ferita mai rimarginata al cuore della città, resta una verità parzialmente disvelata che tuttavia non ha portato, sul piano della giustizia retributiva, ad alcuna punizione per mandanti ed esecutori, resta il dolore dei familiari e degli amici, restano le tossine di una contrapposizione difficile da sanare, ben simbolizzata dalle due lapidi poste fianco a fianco nel giardino prospiciente la banca , che ambedue ricordano Pino Pinelli, ma una definendolo “ucciso innocente” e l’altra “morto tragicamente innocente” in Questura. Resta una memoria quanto mai divisa e non ricomponibile, cortei contrapposti, fischi e schiamazzi in un luogo di dolore per far prevalere la faziosità politica sulla pietà.

Ma resta anche la memoria dei giorni successivi, della reazione composta di un popolo atrocemente ferito, di una folla silenziosa e compatta raccolta attorno al Duomo in cui si celebravano le esequie, e l’unica voce che rimbombava dagli altoparlanti era quella del Cardinale Arcivescovo Giovanni Colombo. Quella folla fu l’assicurazione sulla vita della democrazia, il baluardo forse inconsapevole verso ogni tentazione avventuristica, il presidio di una convivenza civile violata.

E rimane una domanda: quell’assicurazione, quel baluardo, quel presidio, insomma, quegli anticorpi democratici, sono ancora vivi, oggi, nella società italiana? Vedendo la mobilitazione per Liliana Segre del 10 dicembre scorso, sempre a Milano, verrebbe da rispondere di sì, ma troppi sono gli interrogativi che ci consegna una stagione in cui l’odio sociale, il razzismo e il disprezzo dell’altro da sé sembrano essere diventati la cifra della dialettica politica.