La definizione migliore di che cosa sia il populismo rimane quella formulata alcuni anni fa da due politologi di area anglosassone, Duncan McConnell e Daniele Albertazzi, secondo cui esso è “un’ideologia secondo la quale al “popolo” (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle “élite” e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del «popolo sovrano» “.
In effetti,guardando allo stile di governo delle diverse esperienze che vengono classificate come populiste – il Governo giallo-verde in Italia, Trump negli USA, Orban in Ungheria, Kasczynsky in Polonia, Duterte nelle Filippine e ora Bolsonaro in Brasile- le differenze sono evidenti, a partire dai diversi regimi istituzionali (parlamentari, semipresidenziali, presidenziali…) o alle modalità con cui il populismo si è affermato: utilizzando partiti già esistenti ma piegati alle proprie esigenze, come hanno fatto Salvini, Trump e Orban ovvero inventandone di nuovi come nel caso dei Cinquestelle.
E però, tutti queste figure sono accomunate dalla pretesa di una rappresentanza esclusiva del “popolo”, anche se magari sono arrivati al potere con una maggioranza esigua o addirittura essendo una minoranza (è il caso di Trump, che alle elezioni presidenziali fu battuto da Hillary Clinton in termini di voto popolare ma vinse per via del complicato sistema elettorale statunitense). L’asserzione del legame fra la volontà del popolo e quella del leader che lo rappresenta è tale da presupporre – e in genere da affermare pubblicamente- l’irrilevanza o peggio la perfidia degli oppositori i quali vengono relegati nella categoria del “non – popolo”, se non dei traditori o degli agenti di una qualche entità nemica.
Nello stesso tempo, teorizzato o meno, il populismo a livello istituzionale si presenta come sintomatico svuotamento della prassi propria della democrazia rappresentativa, giacché tale democrazia si nutre di procedure e le procedure, si sa, sono pesanti e richiedono dei passaggi ben precisi. Ma è chiaro che chi agisce in nome del popolo non può lasciarsi frenare da tali impedimenti, anche se sanciti dalla Costituzione, dalle leggi, da prassi consolidate: lo dimostra l’incredibile forzatura del dibattito parlamentare sulla legge di bilancio italiana del 2019 (frutto a sua volta di un inaudito – ed inutile- braccio di ferro con l’Unione europea) come pure il braccio di ferro instaurato da Trump con il Congresso sulla questione del muro al confine con il Messico che ha portato al cosiddetto shutdown, al blocco delle attività del Governo federale per la mancata approvazione della legge di bilancio. In ambedue i casi, si noti bene, il braccio di ferro è stato generato dalla volontà dei governanti di affermare (anche se magari in modo parziale e/o apparente) le proprie promesse elettorali, dandosi l’aria di coloro che badano alla sostanza contro il formalismo degli oppositori.
Da dove nasce il populismo? La domanda è complessa e non richiede risposte superficiali, ma si può provare a dire che quel fenomeno politico, economico e sociale che va sotto il nome di globalizzazione e che si è prodotto quasi subito all’indomani del crollo delle dittature comuniste dell’Europa orientale, e che ha profondamente ridefinito il panorama delle relazioni economiche senza però che vi fosse una reale capacità della politica di saperlo governare. Per certi versi, anzi, è stato facile dipingere le organizzazioni internazionali, compresa la UE, come soggetti di razionalizzazione del capitalismo globalizzato e la globalizzazione in se stessa come una sorta di “tradimento delle elites” . Il populismo può quindi avere, per così dire, una connotazione “di sinistra” perché il suo messaggio anti elitario ha evidenti sfumatura polemiche nei confronti delle classi sociali più alte . Esso tuttavia non contiene mai un messaggio dichiaratamente anticapitalistico, in quanto non mette in discussione il sistema economico ma le sue distorsioni, e vira spesso nella dimensione del complottismo, della descrizione di scenari segreti , estranei alla discussione pubblica, per cui ad esempio si fa un gran parlare di Trilaterale e di Gruppo Bilderberg , ma si ignorano le cause strutturali della crisi economica e sociale che richiederebbero un approccio scientifico più rigoroso e anche una maggiore selettività nella scelta dell’uditorio cui rivolgersi, essendo evidente che gli interessi di una classe sociale sono diversi da quelli di un’altra, e spesso sono anzi divergenti. Ad esempio, per rimanere nel caso delle recente legge di bilancio del nostro Paese, a prescindere dall’efficacia o meno di misure uscite molto annacquate come il “reddito di cittadinanza” e la “quota cento” per le pensioni, è un dato di fatto che la cosiddetta “rottamazione” delle cartelle esattoriali è irrilevante per i percettori di redditi bassi ma è estremamente vantaggiosa per i ricchi.
Tre sono gli argomenti di fondo su cui si regge la narrazione populista: la percepita pesantezza delle procedure tipiche della democrazia rappresentativa, il senso di delusione di fronte ad un sistema democratico che non ha mantenuto le sue promesse di prosperità indefinita, la rivolta contro le cosiddette “elites”.
E’ in questa fase storica che si colloca la ricorrenza del centenario della fondazione del Partito Popolare Italiano, che viene datata al 18 gennaio 1919, quando viene pubblicato il cosiddetto “Appello ai liberi e ai forti” che venne stilato in una stanza dell’Hotel Santa Chiara dietro al Pantheon, domicilio romano di don Luigi Sturzo (ed è interessante notare come a pochi passi da quell’albergo, che tuttora esiste, vi sia la basilica di Santa Maria sopra Minerva: nell’attiguo convento domenicano, nell’estate del 1944, uno dei firmatari dell’Appello sturziano, Achille Grandi, coordinò il gruppo di sindacalisti cattolici che diedero vita alle Acli: continuità storica…).
Vista a distanza di un secolo la figura di Sturzo appare per certi versi profetica. Indubbiamente, per estrazione familiare e per inclinazione personale, egli veniva dal settore intransigente del movimento cattolico, e lo dimostrò soprattutto nella sua costante attenzione alle istanze di carattere sociale, che non solo studiò con attenzione ma seguì da vicino nell’esperienza della sua natia Sicilia, cogliendo nell’iniziativa autonoma dei cooperatori, dei soci delle Casse rurali, dei piccoli coltivatori interessati ad una razionale gestione dei loro appezzamenti la possibilità per il riscatto di una terra desolata. Nello stesso tempo, Sturzo aveva condotto una frenetica attività a livello istituzionale, come prosindaco di Caltagirone e come dirigente nazionale dell’ANCI, da un lato raccordando la realtà sociale con quella politico-amministrativa nel suo territorio, dall’altro raccogliendo dati giuridici ed economici e formulando proposte di riforma della legislazione. A ciò si aggiunga la sua progressiva crescita come leader del movimento cattolico a livello nazionale quando, ancora durante la Grande Guerra, Benedetto XV lo volle nella posizione strategica di Segretario generale della Giunta centrale dell’Azione cattolica, incaricò che sfruttò per allargare le fila del suo progetto di costruzione del partito di ispirazione cristiana, che egli concepiva come uno strumento necessario per l’affermazione non di un’ideologia statica derivata dai libri, ma come realizzazione a livello politico di una prassi già esistente sui territori. Ciò spiega l’immediato successo elettorale del PPI fin dalla sua prima prova nel novembre 1919 : pur non desiderando Sturzo ed i suoi collaboratori (e neppure la Gerarchia ecclesiastica) una stretta identificazione fra la Chiesa ed il partito, di fatto i quadri associativi ed amministrativi che ne furono il nerbo erano già pronti. Sturzo fu anche un intellettuale di levatura europea ed internazionale, privo della deformazione provincialistica propria di gran parte della classe politica italiana di allora, ed in particolare di quella cattolica: ciò gli permetteva, fra le altre cose, di vedere e valutare con attenzione l’impossibilità per la Chiesa di mantenere una sorta di neutralità fra le diverse forme di governo possibili sottolineando il valore delle istituzioni democratiche.
In effetti , se si dovessero evidenziare i fili conduttori dell’ Appello – un testo lineare, di sole due cartelle, che dai principi generali deduce immediatamente un programma politico- ne emergono con chiarezza due: la tutela e promozione delle autonomie amministrative e sociali che precedono e fondano lo Stato e la difesa della democrazia procedurale e rappresentativa.
La prima si presenta come una necessità oggettiva, non come tutela degli interessi della Chiesa – secondo la concezione cattolica tradizionale (ed infatti il programma del PPI suscitò aspre critiche dagli ambienti integralisti)- ma come riconoscimento della vastità della realtà sociale e del fatto che essa, precorrendo in qualche modo la Costituzione del 1948, è un’espressione della libertà personale tanto quanto l’affermazione dei diritti individuali. Come precisa lo stesso Appello: “Questo ideale di libertà non tende a disorganizzare lo Stato ma è essenzialmente organico nel rinnovamento delle energie e delle attività, che debbono trovare al centro la coordinazione , la valorizzazione, la difesa e lo sviluppo progressivo”. Non si può non vedere la distanza fra questa lucida comprensione della società industriale in cui anche il nostro Paese stava entrando e le fantasie di corporazioni medievali e di imperi costantiniani in cui si perdevano certi oppositori di Sturzo come padre Gemelli e mons. Olgiati.
Sotto il secondo profilo, l’Appello è chiarissimo nel chiedere non una rivoluzione ma una profonda riforma dell’impianto costituzionale di uno Stato che era largamente rimasto fermo allo Statuto albertino del 1848 chiedendo la riforma in senso proporzionale della legge elettorale (che avrebbe permesso una più ampia rappresentanza ai partiti a base veramente popolare scardinando le clientele del notabilato cosiddetto liberale ), il voto alle donne, un Senato non più di nomina regia ma di rappresentanza delle autonomie funzionali e locali, una maggiore autonomia di Comuni e Province e l’istituzione delle Regioni. Insomma, una complessa architettura riformista che cercava di ampliare e rendere più scorrevole il rapporto fra istituzioni e cittadini senza negare il valore della democrazia rappresentativa ma ricollocandolo piuttosto in una diversa dinamica istituzionale più rispettosa dell’articolazione sociale e territoriale del Paese.
Non è un caso che proprio questi due fili conduttori- il riconoscimento delle autonomie funzionali, sociali e locali e la riforma istituzionale- siano stati alla base dell’attiva riscoperta del pensiero sturziano condotta da Giovanni Bianchi all’interno delle Acli e dell’associazionismo non solo cattolico.
Resta da capire che cosa sia ancora attuale di quella vicenda storica, magari partendo dalla constatazione che, solo tre anni dopo la fondazione del PPI, si affermò nel nostro Paese (anche con la complicità di alcuni dei firmatari dell’Appello) un regime che negava la democrazia in nome di un rapporto plebiscitario fra il Dittatore e le masse e negava le autonomie locali e quelle funzionali in base ad una concezione organicista della società che trasformava Comuni, Province, sindacati ed associazioni professionali in altrettante propaggini di un potere centrale oppressivo.
Esistono ad oggi le condizioni per un nuovo partito politico di ispirazione cristiana secondo i principi definiti da Sturzo? E’ arduo dare una risposta positiva, anche perché, come abbiamo visto, Sturzo poteva contare su di una presenza sociale omogenea e per certi versi maggioritaria dei credenti nella società italiana di allora, come poté fare in un contesto diverso – e per certi versi più tragico- Alcide De Gasperi nel 1943 all’atto della fondazione della Democrazia cristiana. Adesso quella presenza sociale è più frastagliata, per quanto diffusa e preziosa nella realtà italiana, e i credenti che si sono impegnati in politica in questi anni si sono spesso trovati su fronti contrapposti e lo sono tuttora (i cattolici che militano in Forza Italia e nell’UDC, tanto per fare un esempio, in molte Regioni e Comuni collaborano con la Lega e non sembra che facciano granché per ostacolarne le politiche xenofobe e razziste).
E tuttavia è importante ribadire che il popolarismo può costituire un efficace antidoto al populismo.
La radice del populismo, come affermano i due illustri politologi Yves Meny e Yves Surel, è la pretesa di parlare a nome di un popolo indifferenziato , senza divisioni fra classi, religioni, distinzioni culturali . Fondando la democrazia sulla volontà del popolo, la democrazia diretta diventa la panacea. La particolarità del populismo è di essere antiélite o addirittura antisistema. Fonda le sue radici su argomenti e prese di posizione non scientifiche o anti intellettuali; si appella al “buon senso” popolare in una logica per cui non esistono più verità assodate ma pareri che vengono tutti messi sullo stesso piano. D’altro canto, la pretesa di costruzione della democrazia diretta si traduce nella sistematica erosione delle funzioni proprie degli organi costituzionali, a partire dal Parlamento, talvolta – come è accaduto recentemente nel nostro Paese- senza passare per complessi e noiosi passaggi di riforma (che implicherebbero il rispetto delle procedure, e prima ancora il riconoscimento della loro funzione) ma limitandosi a comprimere il dibattito parlamentare. A ciò fa riscontro la pretesa di ampliare il ricorso all’opinione diretta dei cittadini tramite l’estensione dello strumento referendario sottovalutando il fatto che domande complesse richiedono risposte complesse, che a loro volta presuppongono da parte degli elettori una conoscenza approfondita dei problemi che oggettivamente non si dà. A meno che non si punti esplicitamente su questo per manipolare il risultato referendario nella direzione voluta, come ha dimostrato il voto del 2016 nel Regno Unito a proposito del rimanere o meno nell’Unione Europea.
A fronte di ciò, e pur sapendo che probabilmente il populismo, pur rappresentando oggettivamente un pericoloso parassita delle democrazie, pone allo stesso tempo delle domande alle istituzioni democratiche sulla loro capacità di rispondere fino in fondo alle istanze dei cittadini, possiamo dire che senza le due intuizioni fondamentali del popolarismo sturziano, il rapporto non strumentale con le forze sociali che a tutt’oggi garantiscono quel po’ di coesione del tessuto sociale del nostro Paese che ancora resiste e la riscoperta di una democrazia procedurale che passa di necessità anche per la rigenerazione delle forze politiche , dei partiti, difficilmente potrà essere evitato il rischio di quell’”inverno democratico” di cui ci giungono continui segnali da ogni parte del mondo.