Province e città metropolitane: quali prospettive?

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La tendenza alla centralizzazione esasperata ( e spesso condotta senza un chiaro criterio, magari pungolata da qualche umore cangiante dell’opinione pubblica) e all’abbandono del territorio deve essere invertita.

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Palazzo Isimbardi, la sede principale della Città metropolitana di Milano.

Si è votato domenica scorsa nella  maggior parte delle Province delle Regioni a Statuto ordinario per l’elezione dei Consigli e, in alcuni casi, dei Presidenti, mentre nelle Città metropolitane si è votato solo per i Consigli. Come è noto, il diritto di voto attivo e passivo è riservato solo ai Sindaci e ai consiglieri dei Comuni del territorio provinciale o metropolitano: la carica di Presidente della Provincia può essere attribuita solo ad un Sindaco, mentre a guidare la Città metropolitana è un Sindaco metropolitano che coincide con il Sindaco del Comune capoluogo.

Questo avviene, come è noto, in base al dispositivo della legge 56 del 7.4.2014 più nota come “legge Delrio”, in quanto a elaborarla e proporla in prima istanza fu l’ex Sindaco di Reggio Emilia e Presidente dell’ ANCI  Graziano Delrio, divenuto Ministro per gli Affari regionali nel Governo Letta, che si fece carico di una proposta di razionalizzazione del sistema delle Province, che di fatto era già stato commissariato dalla spending review del Governo Monti, realizzando nel frattempo quell’istituto delle Città metropolitane che la riforma costituzionale del 2001 aveva inserito nella nostra Carta fondamentale. Dopo essersi più volte incagliato nelle aule parlamentari, il testo era stato recuperato e trasformato dal successivo Governo Renzi, che vi aveva visto uno  dei tasselli per la costruzione del percorso di quella riforma costituzionale che sarebbe poi stata bocciata dagli elettori con il referendum del dicembre 2016.

E’ del tutto evidente, infatti, per chi esamini il testo della legge, che il confinamento delle Province a funzioni residuali, il programmato, massiccio passaggio dei loro dipendenti ad altri Enti pubblici, la creazione di una governance fatta da persone affaccendate in altre occupazioni (Sindaci e consiglieri comunali) e comunque non remunerate per la loro attività, sono tutti elementi di un percorso mirato alla liquidazione delle Province in quanto tali, che avrebbe dovuto completarsi con la loro esclusione dall’elenco degli Enti costitutivi della Repubblica prevista dalla riforma abortita. Le Regioni a Statuto speciale si sono in effetti portate avanti sotto questo punto di vista: il Friuli Venezia Giulia ha abolito le Province sic et simpliciter, la Sardegna ne ha più volte modificato numero, confini e funzioni , sottoponendole a perenne commissariamento così come commissariati sono gli Enti che in Sicilia hanno sostituito quelli provinciali. Come è noto, le due Province autonome del Trentino Alto Adige sono invece ben più importanti della Regione, mentre in Val d’Aosta le funzioni provinciali sono da sempre esercitate direttamente dalla Regione.

La mancata conclusione del percorso di riforma costituzionale ha lasciato le Province, per così dire, in mezzo al guado, in quanto, pur rivestendo tuttora alcune rilevanti funzioni in ordine alla gestione delle strade, della rete delle scuole superiori e delle politiche attive del lavoro, la loro immagine pubblica è decaduta sia per la lunga campagna di delegittimazione a livello di opinione pubblica (a sua volta parte di una più vasta campagna di delegittimazione dell’attività politica ed amministrativa in se stessa) sia per il modello elettorale indiretto , non tanto per la sua supposta carenza di democraticità (cosa falsa, perché si tratta di un metodo largamente praticato in tutto il mondo, e comunque Sindaci e consiglieri comunali sono ben stati eletti da qualcuno) quanto per il fatto che l’abolizione dell’elezione diretta ha creato intorno alle Province – le quali a differenza dei Comuni generalmente non hanno un rapporto diretto con il pubblico- una specie di cono d’ombra che impedisce di coglierne il ruolo e le potenzialità.

Non meglio vanno le cose per le Città metropolitane, le quali avrebbero dovuto adempiere ad una delicata funzione di programmazione su area vasta e ne sono state impedite da un rapporto spesso antagonistico/concorrenziale con le Regioni ed i Comuni, soffrendo anch’esse di una carenza di governance aggravata dal fatto che è spesso difficile per i Sindaci metropolitani separare la propria ottica di amministratori in primo luogo della grande città a capo della quale sono stati eletti per ragionare in una dimensione autenticamente metropolitana. A ciò si aggiunga che una sentenza recente (7 dicembre) della Corte costituzionale ha indicato come la coincidenza fra la figura del Sindaco del capoluogo e il Sindaco metropolitano sia lesiva del principio costituzionale di eguaglianza dei cittadini, mettendo a capo di un Ente territoriale di rilievo costituzionale un soggetto eletto solo da una parte dei cittadini dell’Ente medesimo, devolvendo al legislatore la responsabilità di scegliere se l’elezione del Sindaco metropolitano debba avvenire in forma diretta ovvero da parte dell’Assemblea dei Sindaci e dei consiglieri comunali come per le Province non metropolitane.

Ma al di là di questi aspetti di carattere tecnico/politico, pur di per sé rilevanti per la funzionalità degli Enti, vi è un problema più sostanziale che la questione delle Province pone alla società italiana nel suo complesso, e alle forze sociali come le ACLI, che è quella del presidio del territorio. E’ stato notato come negli ultimi anni vi  sia stato un progressivo ritrarsi delle istituzioni, venendo meno quella presenza spesso pervasiva e magari anche pesante che si manifestava però in figure ben note e magari anche rassicuranti come gli uffici postali, i presidi di polizia locale, gli uffici degli Enti pubblici, i medici di base, tutto quell’insieme di attività che in qualche modo costituiva l’infrastruttura istituzionale e di servizio soprattutto nelle aree più periferiche del Paese, soprattutto per esigenze di razionalizzazione organizzativa ed economica. Qualcosa del genere è possibile rilevare anche a livello ecclesiale con la progressiva chiusura o l’accorpamento delle parrocchie a causa della crisi delle vocazioni. Ciò ha accentuato un sentimento di solitudine dei cittadini, una specie di sindrome di abbandono a se stessi di interi territori e fasce sociali che si sono riscoperte progressivamente prive di interlocutori capaci di dare una risposta ai loro problemi. E questo ha avuto un impatto particolarmente pesante nella fase più acuta della pandemia, dove, ad esempio, il rarefarsi della medicina territoriale, la concentrazione dell’attività sanitaria nei grandi ospedali e  la correlativa liquidazione dei presidi ospedalieri più piccoli ha generato una sensazione, appunto, di abbandono a se stessi che la pratica del lockdown ha aggravato.

In questo senso le Province, che fin dal 1860 hanno fatto stabilmente parte del panorama istituzionale italiano, e che sono state la base su cui si sono organizzate le strutture decentrate del potere statale e parastatale, come pure le forme dell’associazionismo partitico e sindacale, e che peraltro corrispondevano per la gran parte ad identità storicamente radicate, possono ancora svolgere un ruolo positivo soprattutto in termini di interlocuzione con gli Enti locali di grado minore, come i Comuni e le Unioni di Comuni, tenuto conto, del resto, che in tutti i Paesi dell’Unione Europea simili all’Italia per territorio e popolazione esistono, variamente denominati, Enti intermedi fra i Comuni e le Regioni.

Si può ragionare su di una razionalizzazione delle Province stesse, su di una riduzione del numero che si accompagni tuttavia al mantenimento dei presidi territoriali più necessari magari in raccordo con comprensori o Unioni di Comuni, tenendo conto dei percorsi paralleli che stanno seguendo altri Enti territoriali di grande tradizione ed importanza nel tessuto socio economico come le Camere di Commercio (quella milanese, ad esempio, ha riaccorpato a livello metropolitano anche le Camere territoriali di Monza e Lodi).

Quello che è certo è che la tendenza alla centralizzazione esasperata ( e spesso condotta senza un chiaro criterio, magari pungolata da qualche umore cangiante dell’opinione pubblica) e all’abbandono del territorio deve essere invertita, pena il manifestarsi di una gravissima crisi di sfiducia verso le istituzioni democratiche di cui la bassa partecipazione alle elezioni è un sintomo inquietante