Qualcosa di più di un’amicizia

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Giovanni Bianchi e Lorenzo Gaiani intervengono insieme all'incontro di studi a Motta di Campodolcino nel 2006

Sarà stato il 1987, o forse il 1988. Il luogo lo ricordo benissimo, la libreria “In dialogo” dell’Azione cattolica ambrosiana in via Sant’Antonio, che allora non era a pianterreno come adesso ma al primo piano, negli uffici del Centro diocesano.

Ero lì – avevo poco più di vent’anni – quando incontrai Lorenzo Cantù, che avevo conosciuto un paio d’anni prima e che sapevo essere stato un sindacalista e poi il coordinatore diocesano del Movimento lavoratori di AC, e che da qualche tempo aveva assunto la presidenza delle ACLI milanesi. Le ACLI le conoscevo per via di mio padre, che da anni era uno dei dirigenti del Circolo di Cusano Milanino, ma a parte questo non me ne ero mai occupato.

Lorenzo mi riconobbe e mi presentò la persona che era con lui, un tipo alto più o meno quanto me e fortemente stempiato: “Questo è il nostro Presidente nazionale, Giovanni Bianchi”. Ci stringemmo la mano, e lì finì. A dir la verità il nome di Bianchi non mi era ignoto, e nemmeno era la prima volta che lo vedevo, perché nel novembre del 1983, da Presidente regionale, era stato, su richiesta dell’estroso Giovanni Colombo, il relatore al Convegno diocesano dei Giovani di AC intitolato “Dalla tenerezza di Dio la grandezza dell’uomo” (e qualche tempo dopo Colombo mi disse che aveva avuto delle resistenze in Curia, dove il nome di Giovanni aveva ancora una certa aura di “sinistrismo”).

L’ho riletto in questi giorni dolorosi l’opuscolo che riporta gli atti di quel convegno, e mi pare di ritrovare in esso tutto Giovanni, la sua profonda cultura biblica e teologica, il suo umorismo, il gusto del paradosso a partire dal rovesciamento dell’immagine tradizionale del Dio veterotestamentario come di un padrone crudele, rivelando invece in molti passi della Torah e dei Profeti gli incunaboli di quella tenerezza quasi materna che Giovanni Paolo I intuì e che Papa Francesco ha rimesso in pieno onore nella Chiesa.

Qualche anno dopo, finito il servizio civile e l’esperienza nell’AC, Giambattista Armelloni e Lorenzo Cantù (sempre lui) mi chiesero di dare una mano al neo costituito Centro Istituzioni delle ACLI milanesi, dove lavorai prima con Angelo Caterina (ora Sindaco di Pozzuolo Martesana) e poi con Alberto Cazzulani. A dir la verità per tutta una serie di motivi non volevo più saperne di associazionismo cattolico, ma sentivo il bisogno di darmi da fare in qualche modo, e l’esperienza politica della DC ormai nella sua fase finale – ma lo avevano capito in pochi – mi pareva insufficiente e asfittica. Poco a poco, però, l’ambiente di via della Signora, pur con tutte le difficoltà e le asprezze di una dialettica politica diversa da quella degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta (che avrei attinto dalla viva voce dei protagonisti e dalla mia antica passione per i documenti scritti), ma sempre vivace, mi affascinò e mi si configurò come un possibile luogo d’impegno – e poi divenne casa mia.

Lì ritrovai Giovanni, ovviamente in una prima fase da lontano, tenuto conto che lui era il Presidente nazionale ed io l’ultimo arrivato: ci avvicinò la campagna referendaria per la riforma elettorale, in cui lui aveva fortemente creduto dando gambe e consenso di popolo all’intuizione di Mariotto Segni. Per parte mia mi ero gettato a corpo morto, un po’ perché credevo nel senso di fondo di quella battaglia, un po’ perché faceva parte dei miei doveri “d’ufficio”. Le nostre strade dunque si incrociarono lì, e capitò che mi venisse richiesto di accompagnarlo qua e là soprattutto nella fase della raccolta firme del 1992 e della decisiva – o almeno credevamo – campagna elettorale del 1993. In quelle circostanze avemmo occasione di parlare e di scambiarci le nostre impressioni: per la verità era lui che parlava, io ascoltavo ed anzi assorbivo come una spugna, e rimanevo colpito dal fatto che lui sembrava dare un particolare valore al mio punto di vista: un atteggiamento che avevo riscontrato da pochissimi dei “grandi” dell’associazionismo e della politica con cui avevo avuto a che fare (un altro era Luigi Granelli).

Nel dicembre 1993 – ero ormai entrato da tempo negli organi delle ACLI milanesi – vi fu il Congresso straordinario di Chianciano, che avrebbe dovuto segnare una fase di rifondazione del Movimento: di esso non ricordo tanto la fase macchinosa delle modifiche statutarie – che denotarono peraltro una ben radicata renitenza al cambiamento da parte di molte Regioni e Province acliste – quanto gli scenari che Giovanni evocò per il futuro del Paese, delineando la possibilità di una grande alleanza fra la sinistra post-comunista ed il nuovo Partito popolare che si andava organizzando sulle macerie della DC. In quella fase in cui nessuno aveva la percezione dell’ormai imminente “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, questo tipo di nuova alleanza riformista non avrebbe avuto il significato difensivo e a tratti – pur nobilmente – conservatore che poi effettivamente ebbe l’Ulivo, ma sarebbe anzi apparsa come la concreta possibilità di un cambiamento di fase storica gestito dalle componenti popolari del Paese senza che pesassero più le ipoteche della Guerra fredda. Addirittura Giovanni arrivò ad individuare da subito in Romano Prodi la figura che avrebbe potuto fungere da garante e da guida di questa alleanza.

Le cose, come è noto, non andarono così, e fu una delle tante occasioni perdute di questi anni. In ogni caso, qualche mese dopo, Bianchi accettò la proposta di Martinazzoli di impegnarsi nel ricostituito PPI e di candidarsi alla Camera come capolista della nuova circoscrizione Lombardia 2 istituita dal Mattarellum. Il territorio della circoscrizione era ampio, comprendeva tutte le Province pedemontane della Lombardia, da Varese a Brescia, e richiedeva una costante presenza per sostenere un partito neonato, decimato dalle vicende di Tangentopoli e dalle scissioni di coloro che erano andati a porsi sotto le bandiere di una destra nascente ma già aggressiva. Ecco, in quel frangente- febbraio 1994- Giovanni volle me come suo… assistente? Autista? Nostromo? Ancora adesso non trovo la parola adatta, per quanto in un diario di bordo pubblicato qualche tempo dopo lui mi avrebbe paragonato a Passepartout, il maggiordomo tuttofare francese che accompagna Phileas Fogg nel tentativo di compiere in 80 giorni il giro del mondo. Va detto subito: la scommessa la perdemmo e non trovammo nemmeno esotiche principesse sulla nostra strada. Il PPI prese una legnata memorabile, anche se occorre precisare che nella circoscrizione Lombardia 2 la percentuale fu assai migliore che altrove: ad esempio rispetto a Lombardia 1 (cioè il territorio della Provincia di Milano) dove capolista era Roberto Formigoni.

Giovanni stesso era conscio del fatto che il PPI e l’Alleanza per l’Italia, stretti fra i Progressisti e il neonato Polo della Libertà, sarebbero stati inesorabilmente sconfitti, ma a lui, come sempre, interessava aprire dei processi, soprattutto quello di una vera riscoperta del filone popolare sotto i pesanti strati di errori e di compromessi di cinquant’anni di potere democristiano. Quando, qualche mese più tardi, il PPI celebrò il suo primo Congresso Giovanni per qualche tempo fu il candidato di coloro che si opponevano alla logica neoclericale della candidatura di Rocco Buttiglione. Non so se avrebbe potuto prevalere: so soltanto che, la notte prima del voto, la sua candidatura venne ritirata da parte dei gran sapientoni dell’ex sinistra dc e di quegli esponenti della cosiddetta società civile che si erano rapidamente convertiti ai riti del politicismo (prima fra tutti Rosy Bindi, che con gli anni non è cambiata se non in peggio) che proposero in sua vece Nicola Mancino, di cui tutto si poteva dire salvo che fosse un homo novus. Infatti vinse Buttiglione, ed il seguito è noto.

Ma quel che più mi importa in questa sede è dire che fu proprio a partire da allora, da quel mese passato insieme a chiacchierare, a condividere speranze e progetti, a conoscerci meglio che è nato quel qualcosa che è stato più di un’amicizia, un rapporto che non riesco a definire in altro modo che filiale, da parte mia, e che ha indirizzato molte delle scelte che ho fatto dopo. Diciamo pure tutta la mia vita. Giovanni progressivamente mi inserì nella cerchia dei suoi amici e anche nella sua intimità familiare, con Silvia, sua moglie e sua autentica compagna di vita, con Davide e con Sara. Soprattutto Sara, con cui sviluppai un rapporto di amicizia fatto di lunghi scambi di idee sulla situazione politica, e al mio parere lei, che era giornalista di gran classe, attribuiva un immeritato rilievo. Sara, la cui scomparsa prematura mi è sempre sembrata una dolorosa ingiustizia, come ora mi sembra quella di Giovanni.

Nel corso degli anni ho scritto con Giovanni e per Giovanni, ma non c’è una sola riga comparsa a sua firma che non fosse interamente sua, non solo nel senso che, evidentemente, lui voleva rileggere tutti i testi più impegnativi, ma soprattutto nel senso che con il tempo avevo progressivamente acquisito il suo modo di scrivere e, per certi versi, di pensare: non si tratta di camaleontismo ma di discepolato, di consapevole assunzione di uno stile e di una linea di pensiero.

E’ capitato talvolta che qualcuno che incontravo per la prima volta fatte le presentazioni mi dicesse: “ah, l’amico di Giovanni Bianchi!”. Un po’ forse alla vanità personale dispiace di essere considerati in relazione a qualcun altro e non per se stessi.

Poco male,in definitiva, perché anche Passepartout, Sancho Panza e il dottor Watson hanno una loro dignità.

E poi, più seriamente, perché se ho avuta la ventura di incontrare una persona così grande, essermi scaldato a quel fuoco, essermi riflesso in quella luce, è una grazia per la quale non cesserò mai di benedire il Signore.

Un testimone luminoso e coerente al servizio della democrazia, della chiesa e del movimento operaio