Quale sviluppo per l’Europa

Quale sviluppo per l’Europa email stampa

1479
0
SHARE

di Paolo Petracca – 05/04/2013

In questa disperante fase politica post-elettorale propongo una riflessione sulle prospettive della nostra economia (che ormai può essere concepita solo in chiave almeno continentale). Per realizzare un futuro sereno per noi europei è necessario delineare una efficace strategia che permetta all’UE di avere tassi di crescita soddisfacenti e tali da garantire uno sviluppo sostenibile nel medio-lungo periodo. Come si può ottenere questo risultato?

L’UE insiste sul lato dell’offerta
Le decisioni del Consiglio europeo e i documenti prodotti dalle istituzioni comunitarie negli ultimi anni continuano a definire una strategia focalizzata quasi esclusivamente sull’andamento della competitività degli Stati del vecchio continente rispetto alle altre aree del mondo. Riduzione dei costi, maggiore produttività, maggiore partecipazione al lavoro, completamento del mercato unico, liberalizzazioni e altri provvedimenti dal lato dell’offerta, che erano gli obiettivi chiave dell’Agenda di Lisbona, vengono nuovamente proposti nella strategia Europa 2020, nella “Annual Growth Survey” del 2011 e nella lettera che i dodici primi ministri europei hanno inviato al presidente della Commissione europea nel febbraio 2012.
Una strategia di questo tipo può tuttavia, a mio parere, risultare efficace soltanto in presenza di un’adeguata dinamica della domanda, che né il mercato interno, né il resto del mondo sembrano capaci di garantire.
Sono infatti incerti e con buona probabilità insufficienti a sostenere la domanda gli effetti sul potere d’acquisto delle famiglie che potrebbero derivare da interventi quali le liberalizzazioni dei mercati dei beni e dei servizi, soprattutto se teniamo conto degli scarsi risultati finora osservati in settori chiave come energia, trasporti e telecomunicazioni. D’altro canto, il continuo taglio delle prestazioni sociali e di welfare – scuola, pensioni, sanità e trasferimenti – rischia di incentivare forme di risparmio precauzionale da parte dei cittadini, con ulteriori effetti depressivi sulla domanda interna. D’altra parte, la situazione esterna all’Europa non dà motivi di conforto: da un lato gli Stati Uniti non sembrano in grado di fungere nuovamente da propulsore dello sviluppo internazionale, dall’altro è difficile immaginare che la Cina, senza una seria riforma del sistema monetario internazionale, possa sostituire gli Stati Uniti, rinunciando in poco tempo al proprio modello di crescita.

Occorre un autonomo propulsore continentale
Tutto questo significa che l’UE non potrà più basarsi su un motore dello sviluppo economico “esterno” ai propri confini e dovrà dotarsi di un propulsore autonomo.
Per raggiungere tale obiettivo ritengo che quanto proposto in una recente pubblicazione della Fondazione Italiani Europei potrebbe essere una possibile ed adeguata strategia ovvero aggiornare e sviluppare la proposta di Jacques Delors per un Piano di sviluppo europeo centrato su investimenti pubblici e produzione e consumo di beni comuni, necessari non solo a generare uno sviluppo sostenibile su scala continentale, ma anche a riequilibrare la crescita nelle diverse aree dell’Unione.
Tale piano potrebbe essere finanziato mediante obbligazioni ad hoc, come i project bonds oppure mediante l’introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, fra i quali la financial transaction tax e il rafforzamento della tassazione ambientale. Inoltre, dovrebbero aggiungersi gli interventi della Banca europea degli investimenti e del fondo infrastrutturale Marguerite (costituito dalle Casse depositi e prestiti di importanti paesi europei), da potenziare sia per numero di istituzioni nazionali partecipanti, sia per dotazione di capitali.
Infine, si dovrebbero nettamente migliorare l’efficienza e l’efficacia degli schemi esistenti (ad esempio i fondi strutturali).
Tali risorse dovrebbero finanziare investimenti per infrastrutture, formazione del capitale umano, consumi collettivi e il rafforzamento di una politica industriale europea che incoraggi l’innovazione, soprattutto nel campo della sostenibilità ambientale e dell’efficienza energetica.
Il piano descritto non dovrebbe avere caratteristiche puramente anti-congiunturali, ma dovrebbe contribuire a innalzare in modo strutturale la produttività, agendo in controtendenza rispetto alla logica di “non interferenza” che ha caratterizzato negli ultimi anni le istituzioni comunitarie e che ha finito per generare preoccupanti fenomeni di desertificazione industriale di intere regioni, con gravi conseguenze anche sui livelli occupazionali.

Tornare alla redistribuzione può far bene
Il perseguimento di una più equilibrata distribuzione del reddito primaria (conseguita sul mercato del lavoro, specialmente nei Paesi con maggiore competitività) e secondaria (sostenuta da interventi fiscali e di welfare), capace di restituire potere d’acquisto e sicurezza alle famiglie, è l’altro pilastro su cui fondare uno sviluppo economico duraturo all’interno dell’Unione.
La pressione concorrenziale dovuta alla rapida globalizzazione dei mercati, l’elevata mobilità dei capitali che ha spostato il peso della tassazione verso il lavoro, la compressione dei diritti sociali, hanno ridotto in maniera considerevole il potere contrattuale delle classi medie e hanno influito sensibilmente sulla diminuzione della quota salari nei vari Paesi europei.
Dopo decenni di arretramento delle politiche redistributive – un arretramento alimentato da un clima culturale, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, di sostanziale accettazione degli esiti diseguali di mercato e di sfiducia in ogni intervento pubblico correttivo – occorre, a mio avviso, tornare a occuparsi di distribuzione del reddito. La lotta alla sperequazione nella distribuzione dei redditi e della ricchezza non può essere infatti, a mio parere, animata da ragioni soltanto morali, ma anzi e soprattutto da ragioni funzionali.
In società più diseguali non solo “si vive peggio” ma accade anche che la crescita incontri spesso interruzioni e ostacoli.
In questo momento c’è una crisi da domanda, nella quale la capacità produttiva (macchinari, lavoro e capitale umano) non viene utilizzata per insufficiente domanda di beni e servizi da parte delle famiglie e delle imprese.

E se fosse d’accordo anche il FMI?
Questa tesi, sostenuta da tempo da economisti di orientamento “keynesiano” come Joseph Stiglitz e Paul Krugman, è stata recentemente fatta propria anche dal Fondo monetario internazionale, che nel paper “The Challenges of Growth, Employment and Social Cohesion” individua nel calo della domanda aggregata la determinante principale della spettacolare crescita della disoccupazione in alcuni Paesi e nella dinamica della diseguaglianza uno dei fattori che ha maggiormente inciso sugli squilibri di domanda aggregata.
La riduzione della diseguaglianza può dunque essere parte di una coerente strategia di politica economica: nel breve periodo, al fine di superare l’attuale fase recessiva, una distribuzione più equa del reddito disponibile delle famiglie determinerebbe un aumento della domanda aggregata; nel lungo periodo, contribuendo a rimuovere gli ostacoli che impediscono a gruppi e classi di individui di intraprendere attività di investimento e di accumulazione di “capitale umano” e garantendo la coesione sociale, consentirebbe di imboccare una traiettoria di crescita equilibrata e sostenibile.

*da “Il perito industriale” n.1-2013