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Ricco di gesti e parole il recente viaggio di papa Francesco a Cuba e negli Usa email stampa

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di Paolo Colombo – 26/10/2015

Dall’America è giunto il monito affinché popoli e nazioni possano vivere in pace gli uni insieme agli altri. Pace che deve essere più forte di qualsiasi rivendicazione e pretesa, tanto più se unilaterale

 

Il recente viaggio di papa Francesco a Cuba e negli Stati Uniti è stato un evento di notevole risonanza mediatica, ma di ancor più grande importanza per le parole pronunciate e i gesti vissuti. Molti gli appuntamenti, a partire dall’incontro con un popolo, quello cubano, segnato da decenni di esclusione dai normali rapporti internazionali e di vita democratica, ma anche desideroso di cambiamento; che sta vivendo una fase di transizione segnata da profonde aperture, in particolare nel rinato dialogo con i vicini USA dopo la fine, espressamente dichiarata da Obama, dell’embargo economico. Forse tutto ciò non sarebbe avvenuto senza la silenziosa ma efficace opera diplomatica della Santa Sede e di papa Francesco in prima persona: non si tratta di accampare meriti – di ciò non vi è affatto bisogno – ma di riconoscere che la presenza e le parole del papa hanno saputo far breccia nel rapporti tra i due popoli.Povertà e ricchezza: ancora una volta gli estremi si congiungono, in un contesto mondiale dove la globalizzazione – che papa Francesco definisce “globalizzazione dell’indifferenza” – genera squilibri sempre più vistosi. Le immagini televisive ci hanno restituito la povertà di larghe fasce di popolazione dell’isola caraibica, così come il vistoso contrasto nel cuore stesso degli Stati Uniti, prima economia al mondo eppure luogo di fortissime contraddizioni e tensioni sociali.

Non a caso papa Francesco ha voluto presentarsi come “figlio di immigrati”. Lo ha fatto collocandosi in un periodo storico come quello attuale in cui le vittime dell’immigrazione, sulle sponde del Mar Mediterraneo ma non solo su quelle, si contano a decine di migliaia. Numerosissime le persone in fuga da territori in cui la guerra sembra diventata ormai padrona del campo, o comunque da condizioni di vita degradate e perciò alla ricerca di possibilità di esistenza migliori. All’urgenza dell’emigrazione devono saper rispondere, sull’altro versante, nazioni capaci di reale accoglienza e vera integrazione: sono queste le frontiere della nuova società, come papa Francesco ha ribadito nei suoi discorsi sia alla casa Bianca che alle Nazioni Unite. Non si dimentichi del resto che, nel loro insieme, gli Stati Uniti sono una nazione fondata sull’emigrazione, spesso anche per motivi religiosi: sarebbe assurdo che questa logica si spezzasse proprio ora in cui l’urgenza planetaria si fa più acuta.

E quindi la pace: questo, forse, il nodo centrale del viaggio del papa. Una pace minacciata dagli egoismi personali e di gruppo, sempre più a rischio a motivo di tante, troppe incrostazioni della storia. Il papa non ha sottaciuto problemi e difficoltà; e d’altra parte il monito affinché popoli e nazioni possano vivere in pace gli uni insieme agli altri deve essere più forte di qualsiasi rivendicazione e pretesa, tanto più se unilaterale.

E’ infine d’obbligo richiamare un altro aspetto del viaggio pontificio: il messaggio “ad intra”, rivolto cioè dal papa alla Chiesa degli Stati Uniti: una Chiesa che in questi anni è stata scossa fino alle fondamenta da una fitta serie di scandali. Il riferimento è soprattutto ai crimini di pedofilia legati a sacerdoti e religiosi, costati moltissimo a parecchie diocesi americane (basti pensare a Boston) tanto sotto il profilo economico che dal punto di vista della credibilità complessiva. Ma soprattutto costati alle vittime di tali abusi, come il papa ha avuto modo di constatare in maniera diretta attraverso gli incontri personali con alcune vittime.

Il papa non ha nascosto la fatica della Chiesa; non ha nascosto la sua pena nel dover riconoscere tali situazioni. Ha utilizzato una espressione fortissima: “di fronte a questi fatti anche Dio piange”. Non è solo la commozione umana; è Dio stesso a piangere, dove un bambino o una bambina vengono sottoposti a simili crimini. Il papa lo ha detto ai vescovi americani con molta fermezza, eppure senza pretese di giudizio censorio; non dall’altro, come un capo che castiga i suoi subalterni, ma nella sua funzione di vescovo di Roma, primo nel collegio episcopale e fratello tra gli altri vescovi.

Possiamo dire: da questo punto di vista, il viaggio in America è stato una lezione circa il modo con cui papa Francesco intende esercitare le proprie funzioni di vescovo di Roma e quindi capo della Chiesa cattolica.