di Sergio Colomberotto – 10/12/2014
Ancora molte incognite sul Jobs Act, appena approvato. Tante le novità, ma tanti anche i punti da chiarire. Il nodo dei decreti attuativi
Il Jobs Act è finalmente stato approvato. La nuova normativa sul mercato del lavoro è arrivata al termine del suo percorso parlamentare dopo ampie discussioni, purtroppo ridotte da molti mezzi di informazione, soprattutto quelli televisivi, alla questione dell’articolo 18. E’ noto che l’art. 18 dello statuto dei lavoratori che prevede i casi reintegro del lavoratore al posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa nelle imprese sopra i 15 dipendenti, da sempre riveste un forte valore simbolico ed è stato all’origine di scontri tra governo e sindacati anche negli anni passati. È altrettanto noto che ormai tale misura riguarda una percentuale molto bassa dei licenziamenti, in particolare per i casi di reintegro al posto di lavoro anche per il ridimensionato apportato dalla riforma Fornero di 2 anni fa.
La centralità attribuita a questo punto ha dato a molti l’impressione che la questione Lavoro, oggi così importante, sia stata strumentalizzata da più parti, non ultima il governo, per fini politici diversi. In particolare da parte del presidente del consiglio, allo scopo di dimostrarsi un innovatore rispetto alle linee tradizionali della sinistra, condurre una battaglia interna al proprio partito, di accattivarsi le simpatie degli elettori tradizionalmente lontani dalla sinistra e nel contempo assicurarsi l’appoggio delle componenti di centro-destra del governo come la formazione di Alfano, che hanno potuto così darsi una patente di coerenza con le loro linee tradizionali sul lavoro.
Altri punti della legge, come la possibilità per le aziende di controllare maggiormente l’attività dei lavoratori, la possibilità di demansionamento, trasmettono il messaggio di un progressivo indebolimento delle tutele dei posti di lavoro dei lavoratori dipendenti e di vicinanza del Governo alle posizioni della Confindustria, come evidenziato da diversi organi di stampa, sia vicini che avversi al governo.
Impressione rafforzata dalle reiterate dichiarazioni del presidente del consiglio di disprezzo delle parti sociali ed in particolare i sindacati dei lavoratori, dipinti da Matteo Renzi indistintamente come soggetti conservatori della società, preoccupati di tutelare principalmente il proprio ruolo di potere e, nella migliore delle ipotesi, gli interessi di fasce ristrette di lavoratori, i cosiddetti tutelati.
Va notato, però, che a dispetto di tali dichiarazioni pubbliche, il Governo non ha posto la fiducia sul decreto ed ha recepito alcune modifiche proposte dai parlamentari espressione delle sensibilità pubblicamente disprezzate (a cominciare da Cesare Damiano, presidente della commissione lavoro della Camera).
Ciò dà qualche speranza per i 5 decreti attuativi che nei prossimi mesi dovranno definire questioni come: le caratteristiche del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, i nuovo ammortizzatori sociali con il superamento della cassa integrazione, la creazione della nuova assicurazione per i disoccupati (ASPI), il rafforzamento delle politiche attive del lavoro con la creazione della nuova agenzia nazionale per il lavoro e nuove forma di incentivazione della agenzie private di intermediazione di lavoro, gli interventi per la conciliazione lavoro – famiglia in particolare a tutela della maternità ecc. Si tratti di punti molto importanti, che incidono sulla vita delle persone e che richiedono soluzioni tecniche adeguate all’attuale contesto lavorativo e sociale, molto diverso da quello degli anni settanta, ma che, contrariamente a quanto affermato dal governo, sono già state oggetto di interventi significativi con il governo Monti purtroppo con effetti di scarsa efficacia e di dubbia equità.
Perciò il Jobs Act si può ritenere più un punto di partenza che di arrivo, che ora il governo potrà affrontare con maggior libertà avendo ottenuto la delega dal parlamento.
Dobbiamo augurarci che nei decreti attuativi si riesca a tradurre nelle regole del mercato del lavoro quella centralità del lavoratore come persona che la dottrina sociale della Chiesa e le posizioni inequivocabili e pregnanti espresse da Papa Francesco costantemente ci ricordano.
In questa linea la nostra associazione vede favorevolmente l’introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (proposto anni dalle Acli anni fa) a patto che davvero persegua l’obiettivo di dare ai lavoratori un lavoro buono (che valorizzi la persona e gli permetta di esprimere al meglio le proprie possibilità, che gli permetta di realizzarsi come persona e come cittadino) e giusto (adeguatamente retribuito, che gli assicuri dignità personale, salvaguardi la sua salute). In particolare occorre che al termine del periodo di prova, che deve essere il più breve possibile, il lavoratore possa contare su un lavoro continuativo che gli permetta di progettare ed investire nel proprio futuro, di costruirsi una famiglia e poterla mantenere dignitosamente. Di superare cioè quella precarietà che ha contraddistinto gli ultimi anni e che ha mostrato tutte le sue potenzialità negative negli anni della crisi, con la disoccupazione giovanile altissima, la povertà crescente, la fragilità delle aziende di fronte alle sfide dell’innovazione e della competitività.
Sarà importante quindi capire quali caratteristiche avrà questo tempo indeterminato immaginato dal Governo e come si pensa di rendere questo contratto prevalente rispetto agli altri contratti a termine, in una fase, ormai consolidata, in cui le imprese assumono poco e con contratti precari o temporanei.
Fondamentale anche il sostegno e l’accompagnamento dei lavoratori disoccupati che non sia solo legato ad assicurare loro un reddito ma anche a dare loro nuove opportunità di lavoro e di riqualificazione. Strumenti che vanno messi a disposizione di tutti i lavoratori e non solo di alcuni, come promesso dal Governo. Si tratta però di misure che richiedono risorse economiche e professionali che in tempo di bilanci magri non è chiaro dove si prenderanno, a carico di chi (i lavoratori, le aziende, lo stato, le regioni?), di che entità saranno (si teme che verranno dati meno soldi ai disoccupati e per meno tempo rispetto all’attuale cassa integrazione). In questo senso la riforma del lavoro è condizionata da altri provvedimenti legislativi di natura fiscale che devono adeguatamente sostenere gli obiettivi dichiarati.
Molto positiva anche l’attenzione alla conciliazione famiglia-lavoro, con sostegni maggior alle famiglie e all’educazione dei figli, ricordando però che norme su tali materie esistono da anni, il problema è che spesso vengono disattese anche da aziende “serie” (pensiamo al fenomeno delle dimissioni in bianco in caso di gravidanza). Si tratta quindi di affrontare il nodo di come rendere effettive le disposizioni che si adotteranno.
Per raggiungere obiettivi così ambiziosi con risultati che abbiano qualche speranza di successo bisogna che il Governo passi dall’atteggiamento autoreferenziale di chi ha già tutte le risposte pronte e ricette sicure a chi ascolta e coinvolge tutte le parti in causa. Interventi dei commentatori più accreditati sui temi del lavoro e dell’economia (da Giavazzi a Gallino, da Ricolfi a Ichino, da Boeri a Passerini) hanno già evidenziato una serie di limiti e di dubbi sulle scelte fatte (poche) e di quelle che si preparano nei prossimi mesi.
Le parti sociali, i sindacati dei lavoratori, le organizzazioni datoriali, il terzo settore, l’associazionismo, le fondazioni ecc. con tutti i loro limiti e specificità rimangono elementi fondamentali di rappresentanza di alcune istanze e soggetti che possono dare contributi competenti alla soluzione dei problemi sia a livello della loro progettazione che alla loro realizzazione. Escluderle dal processo di cambiamento è quindi sbagliato e controproducente, soprattutto se l’intento del Governo è quella dichiarata di superare le divisioni e le conflittualità del passato tra lavoratori a imprese e tra lavoratori tutelati e non. Per uscirne insieme occorre favorire il confronto, il dialogo, la cooperazione, la partecipazione. Evitare lo schema tradizionale per cui nelle battaglie per le riforme ci deve essere sempre qualcuno che vince e qualcun altro che perde. Dimostri il Governo di credere nello schema nuovo che bisogna vincere tutti perché solo insieme, garantendo a ciascuno dignità e rispetto, si può superare la difficile fase che vive il nostro paese.