Il centenario della nascita di Giovanni Paolo II inquadra storicamente la sua vicenda umana e religiosa all’interno del XX secolo (per quanto si sia conclusa quando il XXI secolo era da poco incominciato), ed effettivamente poche delle grandi figure storiche sono state inserite come lui nelle tragedie, nelle contraddizioni e nelle grandezze dell’epoca novecentesca.
Quando Karol Wojtyla nasce la Polonia ha da poco ripreso, come effetto della Prima Guerra mondiale, la sua identità come Nazione dopo anni di tripartizione fra tre imperi, ed è già impegnata in una lotta mortale contro uno dei suoi due rivali storici, la Russia diventata da poco bolscevica, mentre l’altro, la Germania, si sta appena riprendendo da una dura sconfitta che ne ha fiaccato la fibra alimentando un torbido revanscismo che anni dopo sarebbe sfociato nella tragedia del nazionalsocialismo.
Questo giovane uomo amante delle arti e della filosofia, cresciuto senza madre e avendo perso l’amatissimo fratello maggiore, forgiato da una fede religiosa indistruttibile, si trovò a soli diciannove anni ad affrontare con tutti i suoi compatrioti un’aggressione brutale da parte tedesca che puntava alla riduzione in servaggio della Polonia attraverso la distruzione della sua identità nazionale e del suo retaggio culturale. E infatti le lezioni in seminario Wojtyla dovette seguirle in condizioni di clandestinità, e la stessa ordinazione, pur essendo ormai finita la guerra da un anno, gli fu conferita in via riservata dal cardinale arcivescovo di Cracovia Adam Sapieha. La Polonia infatti, dopo un brevissimo interregno di tipo democratico, divenne a tutti gli effetti una dittatura dominata dal partito comunista locale ed eterodiretta dall’Unione Sovietica.
Il giovane Wojtyla studiò a Roma, e , tornato in Patria, si dedicò all’insegnamento e alla cura della gioventù cattolica in un contesto di crescente intolleranza politica da parte di un regime che governava con lo stesso spirito di un corpo di occupazione straniera (talvolta in senso letterale, perché per molti anni il posto di Ministro della Difesa spettò al maresciallo Rokossovskij, che di fatto era un ufficiale dell’Armata Rossa di lontane origini polacche, mandato dal Cremlino per controllare strettamente una provincia indocile), di fronte a cui il cattolicesimo si ergeva come unica opposizione possibile. I passaggi successivi, che videro Wojtyla divenire Vescovo ausiliare e poi Arcivescovo di Cracovia e poi cardinale, furono seguiti con relativo distacco dal Governo comunista, che nell’attitudine cordiale e dialogante del giovane presule credevano di trovare una maggiore arrendevolezza rispetto allo stile più roccioso del Primate Stefan Wyszynski.
Quando il secondo dei due Conclavi del 1978, quello di ottobre che venne dopo la fine del rapido pontificato di Giovanni Paolo I, chiamò proprio il non conosciutissimo cardinale polacco al Soglio di Pietro fu evidentemente uno choc per molti: innanzitutto perché per la prima volta da quattro secoli la guida della Chiesa non era più affidata ad un italiano, e poi per la scelte di un Vescovo che veniva da un Paese situato oltre la cortina di ferro. Sotto il profilo politico ciò induceva un evidente sconvolgimento, come si sarebbe incaricata di dimostrare la sequenza degli eventi che vide il Papa tornare trionfalmente in Polonia nel 1979, mentre l’anno dopo la rivolta operaia di Danzica portava alla nascita del sindacato libero Solidarnosc, portando la situazione al punto tale da costringere il potere comunista ad una sorta di colpo di Stato militare nel dicembre 1981 per evitare un’invasione sovietica. E se quello pareva il punto più alto di un’inaudita tensione internazionale, solo otto anni dopo crollava il Muro di Berlino, simbolo dell’oppressione e della divisione dell’Europa , e a dieci anni esatti dal golpe polacco l’Unione Sovietica cessava di esistere aprendo un capitolo nuovo nella storia dell’umanità.
E’ fuori discussione che l’elezione di Giovanni Paolo II, il suo dinamismo pastorale e politico,sia stato uno dei fattori che hanno messo in movimento il processo autodistruttivo di un sistema già minato al suo interno da insanabili contraddizioni (e forse l’attentato che egli subì nel 1981 è da inquadrarsi in quest’ ottica), ma sarebbe un errore restringere il suo pontificato sotto l’aspetto geopolitico. In realtà Wojtyla fu portatore di un progetto complesso, che mirava a toccare ogni aspetto della vita umana: il suo approccio infatti non era primariamente teologico ma filosofico, nel senso che, assumendo l’esperienza umana come il luogo attraverso cui doveva manifestarsi la rivelazione divina e la redenzione portata da Cristo, cercava di rivolgersi all’essere umano nella sua completezza assumendo in pieno la complessità del rapporto con il moderno, ivi comprese le ideologie che esplicitamente negavano la dimensione trascendente e religiosa.
Al centro, ben salda, vi era l’affermazione della radicalità della novità cristiana nel cuore della storia umana e del ruolo della Chiesa cattolica come portatrice di tale messaggio: qui, peraltro, si collocarono molte delle critiche che accompagnarono tutto il lungo pontificato wojtyliano. Infatti, sebbene l’Arcivescovo di Cracovia avesse partecipato a tutte le sessioni del Concilio Vaticano II e ne avesse puntualmente applicato le riforme, a partire da quella liturgica, egli apparve a molti come una sorta di restauratore anche per la sua propensione a favore di movimenti o di congregazioni religiose di recente costituzione che propendevano per una lettura agonistica del rapporto con la modernità . Inoltre, si riteneva che il Papa avesse a tal punto assunto la necessità di una competizione insieme filosofica e politica con il marxismo da aver chiuso gli occhi nei confronti dei fenomeni degenerativi dell’Occidente capitalistico, e alcuni si spingevano addirittura a rimproverargli presunte simpatie verso le dittature di destra sudamericane, prendendo ad esempio spunto dalla tormentata vicenda dell’Arcivescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero e, più in generale, dalla politica di nomine ecclesiastiche in quella tormentata parte del mondo.
Ma una lettura di questo genere pecca di sostanziale ideologismo, anche perché sottovaluta un particolare che emerge chiaramente dal magistero sociale di Giovanni Paolo II, il primo Pontefice, detto per inciso, ad aver vissuto sia pure brevemente in modo diretto la condizione operaia, e che almeno dalla fine degli anni Ottanta in poi, quando la crisi del sistema sovietico appariva avanzata ed irreversibile, lungi dall’inneggiare alla fine della storia e alle virtù universali del capitalismo (cosa che semmai fecero alcuni apologeti interessati, soprattutto in ambito nordamericano) , si preoccupa di immaginare che cosa sarebbe accaduto dopo, cercando l’equilibrio fra le ragioni dell’economia di mercato – che la Chiesa non aveva mai condannato- con quelle dell’interesse sociale diffuso, al punto da elaborare, nell’ Enciclica Sollicitudo rei socialis (1987), la nuova concezione delle “strutture di peccato”, addirittura recepite nel nuovo Catechismo universale come “situazioni sociali o istituzioni contrarie alla legge divina”. Un notevole passo avanti rispetto alla contestata formulazione del “peccato sociale”, che purtroppo non è stata adeguatamente supportata dall’elaborazione teologica e pastorale successiva. In linea generale , comunque, si può dire che tutto ciò che è stato successivamente affermato e statuito da Papa Francesco (lo dice lui stesso) trova la sua radice nel magistero del Pontefice polacco, che peraltro fu l’artefice della “carriera” del gesuita argentino prima come Vescovo ausiliare, poi come Arcivescovo di Buenos Aires e cardinale.
In effetti Giovanni Paolo II operò sistematicamente per evitare ogni confusione che lo riducesse al ruolo di “cappellano imperiale”, soprattutto nell’ultimo lustro del suo pontificato, marcato dal terribile evento dell’11 settembre e delle due guerre che ne seguirono, che la destra internazionale concepì come una sorta di resa dei conti politica, culturale e religiosa con l’Islam incontrando la sorda resistenza del Papa, che si smarcò da questi goffi tentativi rilanciando sul dialogo interreligioso come l’unica strada possibile per la pace, come del resto aveva già fatto con profetica intuizione fin dal 1986 invitando in Assisi un inedito incontro di pace di tutte le grandi religioni che suscitò le ire del cattolicesimo tradizionalista ed anticonciliare e le riserve di alcuni settori della Curia romana, fra cui il cardinale Joseph Ratzinger, forse il più stretto collaboratore del Pontefice (che peraltro ne avrebbe promosso uno analogo da Papa, avendo evidentemente cambiato idea nel frattempo).
La stessa problematica della “purificazione della memoria”,ossia del chiarimento di alcuni momenti di storia della Chiesa che produssero situazioni inaccettabili secondo il giudizio moderno, venne affrontata dal Pontefice con una grande attenzione, cercando di recuperare nella prospettiva universale un rapporto con le altre confessioni cristiane, con le altre religioni (a partire da quelle afferenti al comune ceppo abramitico) con il mondo della cultura laica. L’operazione ovviamente scontava la difficoltà di distinguere fra gli errori compiuti da uomini di Chiesa – che spesso operavano in base a precise direttive disciplinari e magisteriali – dalla Chiesa stessa, e in quanto tale si presentava estremamente complicata in quanto doveva scontare delle riserve anche all’interno della Curia romana e di non pochi vescovi. Spesso, inoltre, l’atteggiamento di chi era destinatario di queste richieste di perdono non era tale da invogliare a continuare il dialogo, ma l’immagine commovente di un anziano Papa ormai piegato da numerosi malanni abbracciato al Crocifisso nella grande cerimonia svoltasi durante l’Anno giubilare 2000 è ancora nella memoria di tutti.