Smart working: opportunità o strumento emergenziale?

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Il webinar "Il futuro delle città" in occasione della presentazione dell'indagine condotta da Ipsos ha analizzato il fenomeno che dall'inizio della pandemia sta ridisegnando i luoghi e i tempi del lavoro

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L’ 11 gennaio ha avuto luogo il webinar condotto da Alessandro Rosina “Il futuro delle città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del COVID-19“, occasione per presentare l’indagine condotta da IPSOS per Laboratorio Futuro e presentata da Ivana Pais, Università Cattolica del Sacro Cuore e da Cecilia Leccardi, segreteria di presidenza Acli con delega al Lavoro.

È seguita la tavola rotonda con le riflessioni e i commenti d: Alessia Cappello, assessore allo Sviluppo Economico e Politiche del Lavoro – Milano; Claudia Pratelli, assessore alla Scuola, Formazione e Lavoro – Roma; Paolo Ricotti, presidente nazionale Patronato Acli e Cristina Tajani, consigliera esperta Ministero del Lavoro.

I dati e le informazioni hanno riguardato l’esperienza di lavoratori e aziende relativamente all’utilizzo dello smart working nella fase emergenziale, analisi fondamentale per comprendere le prospettive per i prossimi anni, sia in ambito lavorativo sia riflettendo sulle implicazioni nelle dinamiche urbane.

In particolare emerge come le aziende della provincia di Milano che non ritengono possibile il lavoro da remoto risultano essere il 43%, queste: sono localizzate prevalentemente nei Comuni della Provincia di Milano (50,8% vs 43,4% nei Comuni della prima fascia e 36,6% nella città di Milano); sono di piccole dimensioni (43% delle aziende da 1 a 49 addetti vs 19% delle aziende sopra i 50 addetti); operano nel settore del commercio (77,2% vs 48% nell’industria e 32% nei servizi); hanno incontrato importanti difficoltà durante l’emergenza pandemica (56% tra coloro che hanno interrotto l’attività e 48,9% tra le aziende l’hanno ridotta drasticamente vs 26,7% tra quelle che non hanno subito modifiche, 30,5% tra le aziende che hanno ridotto solo parzialmente le attività e 31,5% tra quelle che hanno aumentato l’attività); hanno oltre 20 anni di attività (48% vs 38,1% delle aziende con meno di 20 anni).

Inoltre, anche tra le aziende che ritengono possibile lo smart working, il 47,4% ritiene che sia applicabile solo per alcune funzioni e livelli aziendali. Questo è un passaggio fondamentale in quanto, in realtà, tra il binomio smart working – presenza, occorre tenere presente che è altamente diffusa la forma ibrida e flessibile. Ciò sia a seconda delle necessità di essere in presenza su luogo di lavoro (o quanto questo consenta spazio sufficiente ad ospitare tutti), sia in base all’andamento epidemiologico.

Molto interessante risulta essere la valutazione media complessiva dell’esperienza dello smart working nel periodo emergenziale: pari a 6,64 in scala da 1 (pessimo) a 10 (eccellente). Le aziende più soddisfatte sono quelle dei comuni della prima fascia, di grandi dimensioni, nel settore del commercio.

Emergono, quindi, chiaramente già alcune (nuove) disparità: primo tra tutti il tema della distanza dall’abitazione al luogo di lavoro che rimanda subito al fatto di essere una grande e urbanizzata città metropolitana con comuni di prima fascia e altri sensibilmente più distanti dal capoluogo.

Rispetto alla valutazione delle opportunità offerte dallo smart working, quella che raccoglie punteggi più elevati tra le aziende riguarda i benefici complessivi per i lavoratori (6,83), seguita da produttività del lavoro (6,69), bilanciamento vita lavorativa-vita privata (6,61) e contenimento costi aziendali 6,58.

I primi a gradire questo strumento sono i profili professionali altamente qualificati (media 7,1), seguiti successivamente dai più giovani (media 6,8). È sorprendente apprendere come, se da un lato sono la fascia tra le più entusiaste dello smart working, dall’altro sono tra i più in sofferenza nel dover rinunciare a rapporti personali in presenza (che resta uno degli aspetti più critici in generale), molto probabilmente dovuto all’avvio di un percorso lavorativo che necessita di essere guidato con attenzione.

Ma a spazzar via ogni luogo comune è il dato sulle donne, con un punteggio pari a 6,5 smentiscono così la parziale inefficacia dello smart working quale strumento di conciliazione tra vita lavorativa e impegni privati, per come è stato pensato in origine dal legislatore. La motivazione di un tale posizionamento femminile rispetto ai benefici apportati dal lavoro da remoto alla conciliazione vita-lavoro può risiedere in una distribuzione degli impegni domestici e familiari ancora troppo sbilanciati a carico delle lavoratrici, che pure se impegnate in smart working, faticano a dividersi tra impegni lavorativi e domestici.  Il lavoro agile, che pure è nato proprio per rispondere a esigenze di conciliazione più spesso espresse dalle donne, nella formula forzata ed emergenziale degli scorsi mesi, ha penalizzato proprio le lavoratrici, su cui ricadono ancora i carichi di cura.

Questo ha indotto diversi relatori, tra cui Cappello e Pratelli, a porre massima attenzione all’esperienza delle donne, in particolare l’assessora capitolina ha richiamato lo sforzo di pensare alla città dei 15 minuti come antidoto anche alla distanza dal luogo di lavoro, creando per esempio spazi di coworking.

Emerge così il risvolto urbano della vicenda, infatti spazi di coworking posso comportare una riduzione dell’uso di uffici o palazzi comportando la presenza di immobili, magari strategici, ma vuoti. Ciò va approfondito considerando, inoltre, quanto sia impattante il fenomeno del pendolarismo su Milano, sia in termini di servizi che, soprattutto, urbanistici e viabilistici tanto da far affermare a Cristina Tajani che la Città “abbia preso forma proprio intorno al lavoro”.

Gli effetti sul tessuto urbano sono ripresi da Paolo Ricotti il quale sottolinea come il tema della mobilità sia sempre più da considerare, interrogandoci se il fenomeno dello smart woking possa servire da alibi per far arretrare, in buona o mala fede, lo sviluppo della mobilità proprio ora che se ne sta riscoprendo l’importanza.

Ricotti propone di porre lo sguardo anche sul futuro. Infatti, se lo smart working “non nasce in Italia per scelta culturale, politica o organizzativa ma per una necessità legata ad un’emergenza: dietro però ci sono fenomeni differenti, tutti da approfondire: conciliazione, rete trasporti rigida e fragile, spazi di lavoro non sempre confortevoli e sicuri, difficoltà nella gestione dei minori e degli anziani”, pertanto, se occorre passare da un concezione puramente emergenziale ad un assetto strutturale e consolidato, bisogna far sì che lo smart working diventi una scelta ben ponderata, una scelta anche culturale, che non sia, quindi, una mera “pezza” ai problemi irrisolti del sistema italiano, in particolare di un welfare le cui debolezze non possono, ancora una volta, ricadere sulle famiglie.

I DATI