Il 9 giugno 1991 veniva celebrato il primo referendum nel nostro Paese che concernesse un legge elettorale: in particolare il referendum mirava a correggere la legge elettorale allora vigente per la Camera dei Deputati che prevedeva la possibilità, nelle maggiori circoscrizioni, di arrivare ad esprimere fino a tre preferenze, per nome o numero di lista, per l’elezione dei deputati all’interno delle singole liste. In sostanza, effetto del referendum sarebbe stato quello di ridurre ad una la preferenza esprimibile, indicando unicamente il nome del candidato scelto.
Il referendum, in realtà, era l’unico di un pacchetto di referendum elettorali sopravvissuto al vaglio della Corte costituzionale, e questo aveva ridotto notevolmente l’entusiasmo dei promotori, in quanto evidentemente il meccanismo di distribuzione delle preferenze alla Camera non incideva sulla natura proporzionalistica del sistema elettorale che si voleva cambiare in senso maggioritario. Fra questi promotori figuravano i Radicali, storici sostenitori del collegio uninominale, ma anche altri soggetti politici appartenenti sia all’area governativa(in particolare il deputato democristiano Mario Segni) sia a quella dell’opposizione di sinistra (compresi alcuni esponenti del Partito comunista, in corso di trasformazione in PDS). Vi erano anche forze della società civile, in particolare le ACLI, che fin dal XVIII Congresso nazionale (Milano, 1988) erano state ridislocate dal nuovo Presidente Giovanni Bianchi su di una frontiera più avanzata della “politicità del sociale”, aderendo all’impostazione sostenuta da molti studiosi (fra cui in particolare Roberto Ruffilli, senatore della DC e consigliere del Segretario Ciriaco De Mita, assassinato dalle Brigate Rosse in quello stesso 1988) di conferire pienamente al cittadino il ruolo di arbitro tramite la possibilità di scegliere direttamente col suo voto i suoi governanti, invece di dare una delega in bianco ai partiti politici come era stato fino ad allora.
Con brillante espressione, Bianchi diceva che le ACLI non volevano “giocare col meccano delle istituzioni”, ma riconferire responsabilità all’agire politico, rendendo possibile, a tutti i livelli, la scelta di una chiara maggioranza di governo che potesse poi essere alternata nel momento in cui gli elettori ne fossero stati insoddisfatti.
Sulle prime sembrò che il referendum non dovesse disputarsi o che fosse condannato al fallimento per mancanza di quorum, in quanto non veniva a toccare una questione centrale: alcuni partiti, poi, in particolare DC e PSI, individuavano nel quesito referendario una minaccia per la consolidata prassi delle “cordate” di preferenze che servivano per la definizione e la spartizione del potere a livello territoriale e centrale. Tuttavia, nel corso della primavera del 1991 l’ormai diffusa insoddisfazione dell’elettorato nei confronti dei partiti tradizionali, che già aveva avuto la sua espressione l’anno precedente con l’exploit della Lega lombarda e delle altre leghe territoriali (che sempre in quel cruciale 1991 si sarebbero fuse nella Lega Nord) , ebbe come effetto quello di creare attenzione e consenso verso il referendum come possibilità di pressione dall’esterno nei confronti di un sistema politico ingessato. Le battute sprezzanti e liquidatorie dei maggiori dirigenti della politica dell’epoca ( Bettino Craxi consigliò di “andare al mare”, De Mita definì il referendum una “cavolata”), completarono in un certo senso l’opera, ed una qualche influenza ebbe anche l’uscita del film di Daniele Luchetti “Il portaborse”, in cui Nanni Moretti interpretava un corrotto Ministro che fra le altre cose gestiva un racket di preferenze utilizzando denaro pubblico per conservare il potere.
Alla fine, il quorum fu raggiunto e superato, arrivando al 62% dei votanti, con il 95% di “Sì” all’abolizione delle preferenze multiple: da qui, e dagli sconvolgenti avvenimenti della primavera del 1992 (l’indebolimento delle forze governative alle elezioni, lo scoppio di Tangentopoli, gli attentati mafiosi in cui perirono Falcone e Borsellino…) venne l’inizio della fine del sistema politico tradizionale, che venne consacrato dagli altri referendum dell’aprile 1993, che aprirono le porte all’elezione diretta dei Sindaci (e più avanti dei Presidenti di Regione) e al passaggio all’uninominale maggioritario per l’elezione del Parlamento .
Trent’anni sono passati, e sono anche stati segnati da tentativi di significative riforme costituzionali, la maggior parte delle quali abortite o respinte dall’elettorato, mentre quelle che sono state effettivamente realizzate o sono oggetto di forti critiche (come la riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione, che ha aumentato i poteri delle Regioni, creando una serie di criticità emerse in particolare durante la pandemia) o hanno effetti ancora tutti da valutare (come la drastica riduzione dei componenti delle due Camere, ratificata per via referendaria nel 2020 ma non ancora applicata).
E’ del tutto evidente che, nella sua parte ordinamentale, la Costituzione è tutt’altro che intoccabile, in quanto le forme della produzione legislativa, i rapporti fra Governo e Parlamento e il ruolo del Capo dello Stato , definiti in sede di Costituente in base all’esperienza storica e alle contingenze politiche di quel momento, sono naturalmente portate ad evolvere rispetto alle mutate esigenze della società. La pretesa di ingessare la Costituzione al suo dettato e alle sue forme non è una modalità di difenderne lo spirito più profondo, ma, lo si voglia o meno, è una posizione politica rispettabile in se stessa, un po’meno quando si ammanta di virtù democratiche pretendendo correlativamente di squalificare come nemici della democrazia – e magari come adepti di un nuovo fascismo- coloro che avanzano meditate critiche a taluni aspetti della Carta .
Superata – forse- la sbornia populista della democrazia diretta, si avverte la necessità di una rifondazione della politica su idealità radicate, rappresentate da forze politiche significative che concorrono per arrivare a governare ad ogni livello, anche attraverso una chiara legislazione che definisca la democraticità della vita interna dei partiti e disciplini le forme del loro finanziamento.
Più in generale, ciò che è centrale – e questo discorso investe anche le forze dell’associazionismo ed i movimenti sociali- è la ripresa di un autentico spirito civico di responsabilità verso la cosa pubblica, indipendentemente dal fatto che si operi o meno nelle istituzioni, che è altra cosa rispetto al (pur doveroso) rispetto delle leggi, ma implica un’attitudine educativa, una tensione positiva ai valori della democrazia, che permei ogni aspetto della vita sociale.