Un continente che deve saper costruire la pace, anche fuori dai propri...

Un continente che deve saper costruire la pace, anche fuori dai propri confini email stampa

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di Paolo Petracca – 10/01/2015

Tre anni fa, all’indomani dell’incontro mondiale delle Chiese di Kingston sull’inscindibile binomio Giustizia e Pace, a cinquant’anni dalla prima Marcia da Perugia ad Assisi e a dieci anni dall’attentato alle torri gemelle, pubblicammo il quaderno “Per un idea di pace”: indicando come le Chiese, le religioni e le più nobili culture politiche sviluppino questo concetto convergendo sull’obiettivo di una visione nonviolenta della storia e della convivenza umana.
Dopo tre anni torniamo ad approfondire le questioni inerenti questo “bene pubblico” (supremo) dell’umanità perché sentiamo la necessità di riaffermarne l’importanza in uno scenario geopolitico mondiale in profondo mutamento, dedicando particolare attenzione all’analisi della situazione dell’Unione Europea e delle aree ad essa immediatamente circostanti.
Le considerazioni che seguono sono una mia personalissima, “tranciante” e forse eccessivamente audace sintesi dei numerosi approfondimenti che come Acli milanesi abbiamo promosso negli ultimi anni sia all’interno dei seminari internazionali europei di Motta di Campodolcino sia nelle sette edizioni del corso di Geopolitica, svoltosi in via della Signora.

Nell’ultimo decennio il contesto internazionale si sta sempre più caratterizzando come multipolare e instabile ed, in particolare ai confini dell’Europa (intesa come UE), si stanno addensando minacciose nubi di guerra provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, dal Caucaso e dalle rive del Dnestr. Iniziando la nostra indagine dal cosiddetto “grande Medio Oriente” (come lo definimmo in quaderno del 2007) gli elementi necessari a ricostruire il quadro che ha condotto in questa realtà drammatica sono diversi e tra loro intimamente connessi. Sul piano dell’“ordine internazionale” occorre notare che al disimpegno ed agli aspetti contradditori e incerti messi in atto dall’Amministrazione Obama in tutta l’area mediterranea non è subentrato, nelle diverse e specifiche situazioni di crisi, ne un preciso nuovo ingaggio da parte dell’Unione europea, ne un efficace agire da parte delle ex potenze coloniali, ne un ruolo decisivo da parte dei cosiddetti Brics.

In secondo luogo, nel mondo musulmano (in particolare in Nord Africa ed in Medio Oriente) da molti anni – ma con una forte accelerazione dei processi a partire dalle cosiddette primavere arabe – è in atto una trasformazione epocale sul piano sociale, culturale e politico che porta quelle società a profondissime divisioni e a evidenti fratture violente. È assai doloroso ma altrettanto doveroso prendere atto come l’Islam (inteso come civiltà nel suo complesso e quindi con tutte le semplificazioni del caso) di fronte al confronto ineludibile con la modernità e con la globalizzazione non riesca a trovare una risposta univoca, dialogante e pacifica fondata su una precisa distinzione tra religione e poteri dello Stato: il manifestarsi della violenza terroristica e militare senza che leélite e i popoli della Libia come della Siria, dell’Egitto come dell’Iraq riescano in alcun modo a debellarla sono segnali di pericolo assai preoccupanti per quei territori e non solo. (Ricordiamoci che la guerra è un “virus difficile da circoscrivere”: gli odi, le mistificazioni della verità, i rancori, i soprusi e i desideri di vendetta e di rivalsa che essa porta con sé tendono per loro natura a propagarsi e a valicare i confini).

In terzo luogo la crisi economica che ha colpito, da sei interminabili anni, i ceti popolari – e quel che rimane dei ceti medi – nella riva Nord come in quelle Sud ed Est del Mare Nostrum, senza dispositivi di tutela e di ammortizzazione sociale come quelli “scattati” keynesianamente, ad esempio, nel Nord del continente europeo, ha contribuito in modo fortissimo ad accendere le tensioni e gli scontri sociali. In questo quadro anche il conflitto israelo-palestinese è drammaticamente e realisticamente divenuto (o almeno così rischia di essere) “solo” una guerra a bassa e media intensità senza una valenza decisiva per la pace in quell’area e nel mondo intero.
Infine l’incapacità della UE di accogliere la richiesta e la vocazione europea della Turchia ha indotto questa potenza regionale emergente a rivolgere lo sguardo verso est e verso sud con le conseguenze geopolitiche che sono oggi sotto i nostri occhi.
Nel quadrante est del “Vecchio continente” la lunga transizione postsovietica ha portato: in Russia al consolidarsi del potere sostanzialmente della vecchia struttura del KGB, in uno Stato a fortissime venature autoritarie e nazionaliste e saldamente al comando delle fonti e delle industrie energetiche (che valgono una percentuale troppo significativa del prodotto interno lordo); molti Paesi (repubbliche baltiche in testa) a chiedere ed ottenere l’ingresso nella Nato e nell’Unione Europea; altri a barcamenarsi in un pericoloso limbo sospeso tra oriente e occidente ed altri, storicamente divisi al loro interno, a devastanti conflitti fratricidi come quello ucraino.
Infine, sempre rimanendo nel settore orientale, ma spostandosi più a sud e più a ovest, nei Balcani ed in particolare in Bosnia e Kosovo, dopo le devastazioni degli anni novanta, si vive una pace incerta e ancora sotto il “controllo” della comunità internazionale.
Se queste sommariamente sono le situazioni che si vivono ai confini della UE, quali strategie ha messo in campo la medesima per essere un continente di pace che sa portare la pace? La domanda appare retorica, anche in ragione di alcuni incisi posti nelle righe precedenti, e la risposta appare difficile perché se, da un lato, la costruzione della UE è sicuramente il più significativo processo storico nonviolento degli ultimi settant’anni, la realizzazione di un sogno pragmatico che ha portato oltre mezzo miliardo di persone (i cui avi negli ultimi secoli hanno violentemente guerreggiato tra loro ad intervalli quasi regolari) a vivere in pace, a unirsi e rendere viva e presente la “più grande invenzione del XX secolo” ovvero il welfare state; dall’altro, l’Europa è ancora una realtà “fragile ed incompiuta” a livello istituzionale che ha lo sguardo rivolto al proprio ombelico e che non riesce ad avere una strategia precisa e ben delineata ed efficace rispetto al proprio ruolo nel mondo e rispetto al rapporto da avere con “i propri vicini”.

Sic rebus stantibus che fare dunque? Non perdere la fiducia e la speranza ‒ perché non serve a niente, come ci ammoniva il grande Tom Benettollo: “arrendersi al presente non è certo il miglior modo per preparare il futuro” ‒, partire dal bicchiere mezzo pieno e investire sulla crescita e sulla maturazione dell’Europa nella costruzione di una prospettiva di pace che passi anche da alcuni e realistici “passaggi intermedi”.

Ne propongo alcuni, solo a titolo esemplificativo, per rendere l’idea di cosa intendo.

1. Da obiettore di coscienza e da entusiasta sostenitore dell’innovatore Francesco che ha espresso con chiarezza a più riprese che la sola esistenza degli armamenti è concausa delle guerre, portando così la Chiesa a convenire con una storica posizione del movimento per la pace, mi domando ‒ in una logica che la teoria della nonviolenza definisce di transarmo e di dividendo di pace ‒ non sarebbe logico sostituire i ventotto eserciti esistenti in un unico esercito europeo e utilizzare i risparmi per il welfare e per la cooperazione allo sviluppo?
Non sarebbe forse questo un passo non impossibile nella giusta direzione? Non sarebbe forse una precondizione (dal momento che le nostre élite non riescono ad emanciparsi da una visione bismarckiana della geopolitica) verso una più autonoma e nuova politica estera della UE?
2. Le relazioni orizzontali tra comunità locali e tra organizzazioni della società civile sono degli straordinari e resilienti ponti che costruiscono la pace tra vicini e rinsaldano la coesione sociale nei rispettivi territori. In questi anni di crisi questa straordinaria e proficua forma di cooperazione si è ridotta sempre di più, in particolare nel dialogo tra la riva nord e quella sud del Mediterraneo; non sarebbe opportuno che la UE, gli Stati membri, le regioni, gli enti locali varassero un piano integrato per obiettivi e aree per sostenere questa buona pratica, gravida di un futuro di pace? Non sarebbe forse questo il modo per sostenere la fragile e giovane società civile di molti Paesi di cultura araba?
3. L’Unione Europea sta progressivamente diventando una low carbon economy (la più grande area del pianeta a bassa intensità di carbonio): risparmio, efficienza e produzione da fonti rinnovabili dell’energia stanno migliorando la qualità della vita dei cittadini e dando un esempio al mondo sulla riduzione di CO2. Perché questo esempio virtuoso non può divenire una nuova frontiera dell’aiuto allo sviluppo e delle relazioni internazionali dell’Unione, degli Stati membri e dei loro enti locali? Perché la green economy non può diventare il terreno privilegiato di una nuova alleanza, di un gioco a somma positiva tra l’UE e i suoi vicini rompendo lo schema dipendenza-oligopolio-autoritarismo che caratterizza il rapporto tra Stati produttori e Stati consumatori di energia da fonte fossile?

Ho proposto questi tre “passi” che indicano la strada ma che si possono iniziare a compiere subito e gradualmente per ricordare il trinomio proposto a Basilea e a Seul venticinque anni fa e così indicare la necessità di riprendere un cammino che le Chiese, le religioni e le più nobili culture politiche del pianeta hanno proposto all’umanità da alcuni decenni e che ha visto luminosi esempi in questi lustri testimoniare come un modo diverso e migliore, se abbiamo occhi per riconoscerlo, sia già in costruzione.

Ho proposto questi tre passi perché le Acli credono nella costruzione europea e nella possibilità di questa di maturare verso una maggiore consapevolezza del suo possibile ruolo positivo nel mondo e credono che sia proprio compito contribuire, in piena consapevolezza dei propri limiti, alla realizzazione di questo disegno di speranza.