E poi il silenzio

E poi il silenzio email stampa

Al confronto con il rumore, le urla, le risate e le voci del campo anche una città caotica come Milano sembra silenziosa. Silvia Maraone ancora una volta ci racconta con le sue emozioni una realtà per noi difficile da comprendere

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I più bravi sanno quasi urlare il mio nome giusto, uno strano Slvia con poche vocali tra la Esse e la Elle. Sliviaaaaaa, quasi a chiamarmi col nome di una delle grappacce tipiche della jugo.
La maggior parte di loro però, mi chiama Serbiaaaaaaaaaa. Non ho mai capito se è perchè confondono Silvia con Serbia, o se perchè urlano a caso il nome delle persone che lavorano nel campo e che per logica provengono dalla Serbia. Ovviamente senza aver capito che io sono italiana.
Alcuni mi chiamano (e con me i miei colleghi) Caritaaaaaas.
A quest’urlo beduino di solito segue una richiesta a scelta tra: give me balon (palloncino) – give me ball (qua sono i più grandicelli) – give me shoes (adulti).
Per arrivare dalla portiera dell’auto all’entrata del campo, salire mezzo piano di scale e chiudermi a chiave nella Caritas room dove la mattina facciamo attività coi bambini under 3 (che poi alla fine vengono anche i più grandi) mi ci vuole un tempo medio di 10 minuti quando sono fortunata, venti minuti in media. Ogni passo è un saluto: dobar dan, good morning, selam, halo, ciao! E ogni saluto è una persona. Se sono bambini cerco di liquidarli in fretta, di solito basta un: after 11, l’ora in cui si comincia a giocare. Con gli adulti dipende dalla richiesta che hanno o dal loro umore, glielo leggi in faccia se stanno bene, se sono tristi, assonnati, preoccupati. In base a questo, mi intrattengo più o meno tempo, stringendo mani e facendo sorrisi. Se le richieste sono particolari, la mattina tendo sempre a dire: after. Ne parliamo dopo che metto giù lo zaino e la giacca e tendenzialmente mi libero di qualche scatolone o sacchetto che inevitabilmente trasportiamo su e giù da Valjevo.

segue

Silvia Maraone, cooperante di Ipsia (l’Ong delle Acli)  si trova in Serbia nel campo profughi di Bogovadja, per il progetto di ACLI, Caritas Ambrosiana, Caritas Italiana, Caritas Serbia, finanziato da ACLI (fondi 5×1000 anno irpef 2014), Caritas Italiana e Caritas Ambrosiana