
Il 13 marzo scorso ha segnato il settimo anno dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio al timone della barca di San Pietro: un anniversario che nessuno, e men che meno il diretto interessato, ha voluto ricordare in modo celebrativo, anche perché la difficoltà del presente non si presta a celebrazioni, semmai a riflessioni.
E la riflessione, ovviamente, non può che partire dal fatto che a sette anni di distanza noi ancora misuriamo la straordinarietà dell’evento che ci è stato donato, come se esso non fosse compiuto in se stesso, ma si dilatasse nel tempo sorprendendoci giorno per giorno. Non si tratta qui di proclamare una rottura rispetto alla fase immediatamente precedentemente, ma uno snodo, una fase di rinnovamento che attraversa tutta la Chiesa e che per certi versi, se rallenta, se non è ancora più impetuosa, è perché non viene accompagnata da uno sforzo significativo da parte di chi per anni ha sognato di trovare una condizione ecclesiale come l’attuale e adesso scopre di non essere capace di viverla fino in fondo e preferisce farsi guidare passivamente piuttosto che accompagnare consapevolmente.
E’ vero sotto il profilo ecclesiale ed è vero anche sotto quello politico e sociale, due dimensioni in cui il Movimento aclista è parimenti coinvolto. la “politica” di Bergoglio è per i poveri e in mezzo ai poveri, in una logica che scarta la dimensione avanguardistica ed elitaria, ma che valorizza la dimensione complessiva dell’approccio alle problematiche sociali senza mai dimenticare che l’ottica da cui partire è quella della povera gente. E in qualche misura questo pensiero si riflette anche sulla comunità ecclesiale nel suo complesso, come quando in uno scritto di qualche tempo antecedente alla sua elevazione al Pontificato affermava: “Vorrei anche chiarire che, quando si parla di ‘Chiesa’ – soprattutto sui giornali – si tende a parlare dei vescovi, dei preti, della gerarchia; ma la Chiesa è tutto il popolo di Dio”.Salutare ammonimento, si potrebbe dire, sia nei confronti di una certa iattanza clericale, sia nei confronti della superficialità con cui di certe vicende ecclesiali si parla da parte di giornalisti che preferiscono dar credito ad ogni spiffero curiale piuttosto che all’esperienza vivente della comunità ecclesiale.
La povertà e l’esclusione sociale diventano quindi la chiave interpretativa della storia, conducendo così ad un capovolgimento dell’ottica abituale, ed assume quindi significato la scelta del Papa, come prima dell’Arcivescovo di Buenos Aires, di vivere poveramente e di amare quei sacerdoti che mescolano la loro vita con quella del popolo, i famosi “pastori che hanno l’odore delle pecore”, secondo una felice immagine coniata dallo stesso Francesco. Eccoci dunque all’“hic Rhodus hic salta”, che non solo conduce ad una denuncia della strutturale ingiustizia del sistema politico e sociale che domina il nostro pianeta, richiamando l’assai poco approfondita categoria delle strutture di peccato, che Giovanni Paolo II aveva coniato oltre venticinque anni fa nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, e che è stata ripresa dal nuovo Catechismo universale senza, peraltro, che vi fosse un tentativo sistematico di definire quali fossero queste strutture e come operare per superarle. Ma un richiamo indiretto viene anche per quei molti progressisti da salotto del Primo Mondo che la miseria dei “dannati della Terra”, per usare la sempre efficace espressione di Frantz Fanon, la conoscono solo per sentito dire, e che spesso barattano la loro impotenza ad immaginare una struttura sociale più giusta con una serie di battaglie sui “diritti”che dimenticano come il primo diritto sia quello a vivere dignitosamente. In qualche misura assomigliano anch’essi a quei teorizzatori del “giusto mezzo” che non hanno la grandezza filosofica degli ideologues francesi del XIX secolo, ma ricordano piuttosto certi critici della virtù ascetica del cardinale Federigo Borromeo che, come scrive il Manzoni, “predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi”.
Tanto più che Bergoglio non è affatto un ingenuo o un sognatore. In quello che è forse il suo testo “politico” più organico, sviluppatosi da un discorso pronunciato nel 2010 per il bicentenario dell’indipendenza argentina, egli ricorda che “bisogna farsi carico del conflitto, bisogna viverlo, ma ci sono diversi modi di assumerlo. Uno è quello adottato dal sacerdote e dal levita di fronte al pover’uomo sulla via da Gerico a Gerusalemme. Vedere il conflitto e voltarsi dall’altra parte, dimenticarlo. Chi evita il conflitto non può essere cittadino, perché non lo assume, non se ne fa carico. È un abitante che di fronte ai conflitti quotidiani se ne lava le mani. Il secondo modo è prender parte al conflitto e restarne imprigionato. […] Il terzo modo è immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo”.
È significativo questo passaggio perché segna un diverso approccio alla questione del conflitto – in primis, ovviamente, quello sociale – che la dottrina sociale della Chiesa ai suoi esordi semplicemente negava riducendolo a cattiva disposizione d’animo fra ricchi e poveri, e che i successivi sviluppi hanno riconosciuto mettendolo tuttavia fra parentesi, soprattutto alla luce della tormentata relazione con il marxismo che sul conflitto sociale costruiva la sua architettura. Il Papa non nega il conflitto, anzi dice che chi lo fugge è un cattivo cittadino e forse primariamente un illuso, ma invita a guardare in fondo al conflitto e cercare di costruire a partire da esso, anche tramite un duro scontro, una sintesi superiore che non escluderà ulteriori conflitti ma permetterà alla dialettica sociale di progredire.
Più avanti Bergoglio propone la sua peculiare visione del rapporto fra cittadini, società civile e Stato, affermando che : “Le persone sono soggetti storici, cioè cittadini che formano un popolo. Lo Stato e la società devono creare le condizioni sociali atte a promuovere e tutelare i loro diritti e a consentire loro di essere costruttori del proprio destino. Non possiamo ammettere che si consolidi una società duale. […] Questo debito sociale esige la realizzazione della giustizia sociale. (…) Dobbiamo recuperare la missione fondamentale dello Stato, che è quella di assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto al fine di garantire ad ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà (…). C’è consenso nell’accordare allo Stato una presenza più effettiva nella questione sociale. Lo Stato e la società devono lavorare insieme per rendere possibili questi cambiamenti e modificare alla radice l’affronto dei problemi di disuguaglianza e distribuzione”.
E che questo sia parte integrante del nucleo di fondo del pensiero di Francesco lo ha sottolineato il padre Antonio Spadaro, Direttore della “Civiltà cattolica” , che in un suo commento alla recentissima Esortazione apostolica “Querida Amazonia” ha voluto sottolineare il focus della tutela del creato, della difesa del diritto dei nativi (ossia dei più deboli, nelle condizioni date del subcontinente amazzonico), come il punto di massima resistenza ad un pontificato che viene denunciato come eretico e scismatico da parte degli agenti interni alla Chiesa di coloro che, dovendo difendere ben più corposi interessi rispetto ai loro burattini clericali, temono più di ogni altra cosa una Chiesa attivamente intenta alla difesa degli interessi della giustizia sociale, dell’equilibrio climatico, dell’equa distribuzione dei beni della terra, di tutto ciò che, come avrebbe detto don Milani, rende al povero un volto quasi umano, poiché, nelle parole di un Padre della Chiesa, l’uomo vivente è la gloria di Dio. Non è del resto un caso che i più conseguenti negatori degli squilibri climatici siano gli stessi,da Trump a Bolsonaro, che hanno negato fino all’ultimo la letalità del coronavirus.
Francesco prosegue per la sua strada: saremo capaci noi di stargli dietro?